L'opinione
La strage di San Marco, la quarta mafia esiste e uccide anche d’estate
È il 9 agosto 2017 quando la Quarta mafia compie il grande salto, infrange i confini della «faida dei montanari» per colpire drammaticamente anche inermi cittadini
È il 9 agosto 2017 quando la Quarta mafia compie il grande salto, infrange i confini della «faida dei montanari» per colpire drammaticamente anche inermi cittadini. Accade a San Marco in Lamis, nei pressi della stazione abbandonata, dove insieme a un boss della mafia garganica e a suo cognato cadono sotto i colpi dei killer anche Aurelio e Luigi Luciani, due agricoltori la cui unica colpa è quella di aver visto qualcosa che non avrebbero dovuto vedere. La stazione, a voler cogliere un riflesso di memoria cinematografica involontaria, è quella nei cui interni è ambientata l’opera prima del nostro Sergio Rubini (La stazione, 1990, dall’omonimo testo teatrale di Umberto Marino). E che ha purtroppo superato la suggestione del grande schermo per diventare oggi un triste e solitario luogo della memoria, dominato da un grande Tau francescano che ricorda i fratelli Luciani, prime vittime inconsapevoli della mafia di Capitanata.
Quella tragica vicenda segnò un punto di non ritorno, aprì uno squarcio nel velo di totale omertà che fino a quel momento aveva avvolto la mafia del Gargano, ritenuta fino ad allora il semplice prodotto di una faida tra famiglie rivali iniziata alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, uno strumento arcaico di vendetta (e di giustizia) privata e non una guerra tra clan criminali contrapposti dotati di progetti d’espansione ben delineati. Le istituzioni compresero che esisteva e che poteva colpire chiunque. Perché uno dei problemi principali della mafia garganica – e della Quarta mafia più in generale – è sempre stato quello del riconoscimento, del palesarsi della sua identità, della percezione del fenomeno nella sua gravità e nella sua complessità da parte dell’opinione pubblica, della sua «promozione» ad emergenza nazionale.
Negli ultimi anni sono stati fatti passi da gigante in ambito giudiziario, nonostante l’inspiegabile (ed inaccettabile) immobilismo dei media, dai giornali alle reti mainstream, che hanno relegato le vicende criminali di Capitanata in seconda o in terza linea, senza cercare di capire – e di spiegare – al pubblico un fenomeno che, ancora oggi, fatica a essere classificato nel genus mafia. Tanto che lo scetticismo pervade persino le forze dell’ordine, come emerge dalle parole taglienti e inequivocabili del Comandante provinciale dei Carabinieri di Foggia Michele Miulli: «Foggia è come Palermo negli anni Sessanta, la mafia non esiste». Eppure Miulli è stato tra i protagonisti di uno dei più clamorosi blitz che abbia mai colpito la criminalità organizzata foggiana, il 24 luglio scorso, l’operazione Game over. L’implicita rassegnazione stride con la gravità del problema, unanimemente riconosciuta dagli addetti ai lavori.
A rileggere le parole pronunciate a fine luglio dal procuratore della Repubblica di Bari Roberto Rossi durante l’audizione innanzi alla Commissione parlamentare antimafia si coglie in tutta la sua drammaticità la dimensione del «Romanzo criminale» made in Capitanata, un romanzo inquietante e purtroppo terribilmente reale: è quella che più si avvicina alla mafia corleonese, dice Rossi, è «quella che spara e uccide, fa operazioni eclatanti come gli assalti ai portavalori», che utilizza la violenza fisica senza risparmio, «è una delle mafie più pericolose perché mette insieme una serie di caratteristiche delle mafie tradizionali e più moderne», è familistica e quindi non facilmente permeabile come la ‘ndrangheta, ha un imprinting culturale che considera la violenza un fatto naturale, ha una grande capacità di creare alleanze perché poco litigiosa al suo interno e di infiltrarsi nelle amministrazioni locali, soprattutto nei gangli della burocrazia.
Altro che mafia di serie D. Altro che accolita di pecorai.
Forse continua ad esserlo mediaticamente, colpita da un virus persistente e duro da sradicare che la condanna, se non all’oblio, ad un silenzio assordante e pressoché totale che giornali e network nazionali le riservano – se si eccettuano i pochi, effimeri attimi di cronaca imposti ogni qual volta si verifica un episodio cruento destinato ad essere dimenticato al volgere della sera – prescindendo come detto da ogni analisi seria del fenomeno, delle sue origini e della sua portata nello scenario composito della criminalità organizzata.
La stessa denominazione Quarta mafia può trarre in inganno, quasi ad evocare una graduatoria delle organizzazioni illecite che la collochi alle spalle del podio, occupato dalle più rinomate e “blasonate” mafia, camorra e ‘ndrangheta. È invece una mafia che uccide anche d’estate, che si colloca ormai in pole position e che richiederebbe uno scossone nella gente che vive in quei territori: la repressione, meritoria, di forze dell’ordine e magistratura è importante ma non basta; occorre che tutti, all’unisono, siano consapevoli senza infingimenti che la Quarta mafia esiste.