La riflessione

Quella strategia difensiva che sevizia senza riguardo la sensibilità della donna

Fernanda Fraioli, magistrato

Ricordiamo il tragico episodio a Bologna: la morte di un bimbo per una diagnosi errata

L’aver generato un altro figlio a poca distanza dal decesso del precedente, perso per accertate negligenze sanitarie, secondo la struttura sanitaria chiamata a risarcire civilmente i genitori, è criterio più che valido per quantificare - ovviamente a ribasso - quello che, in un processo, va fatto in via cosiddetta equitativa.

Giuridicamente tale espressione sta a significare che, quando il diritto è certo, ma non se ne può misurare la cifra con la massima precisione come nel caso di un danno patrimoniale, il giudice deve ricorrere ad una valutazione basata sul suo prudente apprezzamento, per l’appunto secondo equità, senza sconfinare nel mero arbitrio.

Il significato di tale norma risiede nella necessità di assicurare al creditore una tutela quanto più soddisfacente anche laddove non riesca a fornire le prove del danno subìto, a causa delle innegabili difficoltà che le caratterizzano, dipendendo da complesse valutazioni tecniche.

Ma nell’esecrabile episodio di malasanità che ci riportano le cronache bolognesi avvenuto in un locale nosocomio, la difesa dell’Azienda Sanitaria ha ritenuto di far valere in sede civile per il risarcimento monetario dovuto alla famiglia, la nascita di un altro bambino quale elemento per la diminuzione dell’ammontare dovuto per il ristoro di quel danno provocato dai sanitari già condannati in sede penale per omicidio colposo, atteso che - come si legge in sentenza - la bimba morì a causa delle omissioni e della superficialità dei sanitari che ebbero ad occuparsi della occlusione intestinale scambiata e trattata per gastrointerite.
Orbene, se nella finzione scenica della indimenticabile Filumena Marturano di Eduardo De Filippo «i figli non si pagano», nella realtà esiste il principio della pecunia doloris che li ricomprende.

Differentemente detto pretium doloris, è il risarcimento del danno morale subito dalla vittima che attiene esclusivamente alla sua sfera personale, causata da un’afflizione emotiva che, pur rendendo la vita della persona molto più difficile, non ne impedisce il prosieguo.

Risarcibile anche sotto forma di danno esistenziale in relazione al peggioramento della qualità della vita dovuta proprio alla lesione del valore fondamentale di una persona che condiziona anche la sua vita di relazione interna ed esterna al nucleo familiare.

Tanto premesso, una volta assodate le responsabilità degli autori del danno e l’esistenza del danno psichico, agli innegabili fini risarcitori, si deve dimostrare il cosiddetto nesso causale, ovvero che il danno è la diretta conseguenza dei comportamenti professionali non correttamente posti in essere.

Ed è ciò che ha fatto la sentenza penale.

Quindi, sulla base di una consulenza tecnica, si passa a quantificare quella che viene definita la «menomazione dell’integrità psicofisica della persona in sé e per sé considerata, in quanto incidente sul valore uomo in tutta la sua concreta dimensione, che non si esaurisce nella sola attitudine a produrre ricchezza».

Tanto premesso, con tutta la buona volontà, non si riesce proprio a capire come l’aver trovato il coraggio di affrontare una seconda gravidanza - che già in condizioni di assoluta normalità per una donna è fonte di ansie ed insicurezze almeno fino al parto - a poco tempo dal decesso del precedente figlio possa essere considerato capacità di reagire al subìto lutto, tanto da incidere sulla quantificazione del danno da risarcire.

Ora - in disparte che semmai andrebbe valutato in termini meritori la decisione eroica di una madre di affrontare le ansie e le insicurezze tipiche della gravidanza, in un ambiente minato da un così sinistro episodio - il considerare questo fatto una dimostrazione di superamento del trauma subito, per di più a così poca distanza, francamente sembra un po’ troppo.
È pur vero che è la posizione di una delle parti in causa - quella che deve erogare il risarcimento per fatti dei propri dipendenti - e che la strategia processuale è frutto di scelte individuali prese a tutela della propria posizione e che a decidere sarà un giudice terzo, ma altrettanto vero è che in questa situazione è la sensibilità di una donna ad essere stata fortemente seviziata senza riguardo alcuno.

Forse sarebbe stato più corretto considerare la scelta di avere un altro bimbo, esattamente come ha fatto la donna, «un filo che mi tiene attaccata alla vita», quella vita che dichiara di non avere più insieme all’entusiasmo e alle enormi difficoltà nello svolgere ancora il proprio lavoro con «riunioni in lacrime,  e ogni nuovo giorno da affrontare come un giorno  in più senza la mia bambina».

E ancora che «avere un altro figlio è stata una gioia immensa ma segnata dal dolore, perché il lutto non passa, la mia vita è comunque distrutta e non dovrei neanche giustificarmi,  ma le argomentazioni portate dall’Ospedale  mi hanno fatta sentire come se dovessi giustificarmi per la nascita di mio figlio».

Il tutto senza considerare che avere un figlio dopo i 40 anni non è cosa né agevole, né rilassante neppure in condizioni di assoluta normalità e serenità personale.

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