L'analisi
Il bipolarismo «gelatinoso» e la geografia del nostro sistema politico
«Sistema politico», allora, dovrebbe evocare un che di organico analizzabile attraverso meccanismi che si ripetono
La parola «sistema», che ha un etimo greco e poi tardo latino, evoca un qualcosa composto da più elementi tra loro collegati, in modo da creare un tutt’uno coerente e ripetibile. Più o meno.
«Sistema politico», allora, dovrebbe evocare un che di organico analizzabile attraverso meccanismi che si ripetono. All’ingrosso è questo l’oggetto di studio dei politologi, dei giuristi, ma anche degli osservatori che scrivono commenti sui giornali. Cercare regolarità in questo nostro «sistema politico», però, non è facilissimo. Per la semplice ragione che ognuno degli elementi del tutto sembra rispondere ad un insopprimibile moto interno tendente al caos.
Prendiamo le leggi elettorali, ad esempio: non esiste Paese democratico al mondo che ne abbia cambiate tante negli ultimi 30 anni: addirittura cinque (compresa quella di partenza), e che ne abbia in piedi altrettante, una per ogni livello di rappresentanza, di cui tre consentono al cittadino la scelta del candidato e due, invece, la regalano al padrone delle liste. Siamo un sistema parlamentare, secondo lo schema che si ritrova sui libri di diritto pubblico, ma vogliamo andare (forse) verso il presidenzialismo, il semipresidenzialismo o quantomeno un premierato elettivo (forse), dunque un capovolgimento di fronte che impone una revisione radicale degli assetti costituzionali.
Quanto poi agli attori in campo, non si comprende bene se agiamo in un «sistema» bipolare - dunque con due aree più o meno coese con dentro partiti diversi- oppure «multipolare», con più soggetti e non sempre compatibili far loro.
In realtà la salda egemonia di Giorgia Meloni sul versante della destra di governo un polo certo lo configura. E, in teoria, la segretaria del Pd Schlein completerebbe l’inedito bipolarismo con egemonia muliebre sul versante sinistro. Ma qui il condizionale è d’obbligo, perché questa lettura imporrebbe l’esercizio di una funzione aggregatrice parallela e contraria a quella della Presidente del Consiglio. Cosa che allo stato non c’è.
Perché sul versante dell’opposizione sono individuabili almeno tre profili: uno è quello del Pd che tende ad aggregare la Sinistra di Fratoianni e dei Verdi; un secondo è quello del Movimento Cinque Stelle, che rivendica uno spazio autonomo, guardando alle sue origini antagoniste, insofferente alle ipoteche vincolanti; il terzo è quello della terra di mezzo, un arcipelago con tre isolette maggiori, Calenda , Renzi e Più Europa, con posture piuttosto «dialettiche» fra loro.
C’è chi giura che questa piccola geografia al centro del sistema finirà presto per tramutarsi in un doppio protettorato, di destra e di sinistra. Si vedrà. Allo stato dell’arte possiamo solo affidarci ai sondaggi per capire l’aria che tira.
E la media mediata dei sondaggi fatta dal «termometro politico.it» (settimana 9-16 luglio) regala questo quadro: la Destra al 46% con un traino formidabile di Fratelli d’Italia al 29% circa. La Sinistra, più Cinque Stelle e il sullodato Centro ( 10% tutti insieme), al 48,2.
Se poi un ( «quel») pezzetto di quel Centro andasse dall’altra parte, la coalizione di Destra passerebbe al 48,8 e quella di Sinistra al 45,4. Fin qui il giochetto dei numeri putativi, in un tempo lontanissimo da verifiche elettorali, guardando ad un bipolarismo che non c’è.
Su un punto, però si dovrà convenire: l’onere di aggregare nell’area dell’opposizione spetta alla Schlein, a cui si può chiedere certamente di tenere insieme la sinistra - e sembra che ci stia provando, con fatica, anche con un Conte diffidente - ma sapendo che senza quel 10% della terra di mezzo la partita diventa mission impossible.
Del resto anche in tempi meno magri di questo la sinistra per andare al governo col voto popolare ha dovuto far ricorso a un democristiano doc. Si chiamava Prodi e faceva il professore a Bologna.