L'analisi
Mance e lavoro povero, cos’è la vera occupazione nascosta dietro i numeri
Quanti passi indietro ha compiuto la coscienza collettiva rispetto alle grandi stagioni dei diritti che negli anni ‘70 del secolo scorso imposero lo Statuto dei Lavoratori?
Capita di scorrere i numeri svelati periodicamente dall’ISTAT sull’occupazione e di misurare una certa distanza tra quello che vediamo e percepiamo attorno a noi e ciò che, con enfasi crescente, leggiamo nei titoli di testa dei giornali, dei tg e nei commenti del Governo. Per cui sorge spontanea la domanda: com’è possibile che si facciano squillare le trombe dell’alleluja per il lavoro ritrovato, se in giro non si vede che la sublimazione del precariato e del sottopagato fatto passare per occupazione dignitosa, per non parlare poi di quel che accade nel Sud?
I dati sono stati posti in analisi anche dal governatore Vincenzo Visco che ha rilevato in modo esplicito, nelle considerazioni finali di quest’anno, le condizioni d’inadeguatezza dei contratti di lavoro sottoscritti dai giovani, l’irregolarità delle loro occupazioni, la precarietà assoluta in cui sono costretti a costruire il loro futuro. Il fatto che a dirlo sia una personalità dotata di sensibilità keynesiana attenta da sempre ai fenomeni occupazionali, non toglie un solo grammo al monito del numero uno di Bankitalia, che ricorda come la precarietà rappresenti la regola per un giovane su cinque ancora dopo un lustro di attività lavorativa. E allora dobbiamo domandarci di quale lavoro stiamo parlando quando battiamo le manine all’«occupazione record» del mese di aprile. Per capire in che clima si svolge la lettura dei report mensili dell’ISTAT, però, forse occorre dare un’occhiata al contesto in cui siamo immersi e come sono alterate le nostre sensibilità rispetto a certe tematiche.
C’è una pubblicità in tv, mandata nella fascia di prima serata, quella che costa di più, che magnifica l’efficienza del servizio di delivery ( che in inglese vuol dire consegna) di un’azienda che offre ai nuovi clienti due settimane di consegne «a gratis». In sostanza: paghi la pizza ma non il servizio che, evidentemente, alla ditta costa meno della farina impastata di acqua, spicchio di pomodoro e filamento di bufala, la cena più a buon mercato che si possa acquistare sul mercato. Nello spot il giovanotto in tuta blu e gialla, felice come una Pasqua di servire il cliente, non solo non becca manco la mancia (per sottolineare che la consegna è gratis), ma se ne torna fiero sulla sua bicicletta verso nuove consegne, come dovesse riprendere il percorso del Camel Trophy.
Sappiamo poi di nostro che quel fattorino ci mette di suo il mezzo delle consegne, che si deve comprare la gerla (sottoforma di cauzione, mai restituita, però) con su stampigliato il brand dell’azienda multinazionale per cui provvederà ai «domicili», che deve muoversi alla svelta perché la concorrenza è forte e rischia di trovarsi in fondo alla lista se non si dà da fare, perdendo i quasi tre euro per consegna. Insomma: un’occupazione che ricorda un po’ i lavoretti retribuiti con mancette competenti degli studenti americani - tagliare il prato del vicino o consegnare il latte davanti ai maglifici cottages del sogno Usa - solo che qui da noi viene considerata «occupazione». In realtà si tratta di un working poor, di un «lavoro povero» che la traduzione in inglese non renderà certo più ricco. Uno studio dimostra che il lavoro povero- parliamo di meno di 1000 euro al mese - ha riguardato più del 60% di chi ha cominciato a lavorare alla fine degli anni ‘90.
Diciamolo a chiare lettere: quanti passi indietro ha compiuto la coscienza collettiva rispetto alle grandi stagioni dei diritti che negli anni ‘70 del secolo scorso imposero lo Statuto dei Lavoratori? Come avrebbe potuto essere tollerata una figura come quella del rider, che sembra vomitata dalla preistoria della rivoluzione industriale basata sullo sfruttamento intensivo del lavoratore? E, soprattutto, perché non solo non c’è più indignazione per questo ma accettiamo senza batter ciglio di considerare un gran successo un’occupazione che ha come pilastro la precarietà? Un’occupazione trompe- l’oleil, dove il poco diventa il canone ordinario.