La tragedia
Ancora al lavoro e non meritavano questa fine atroce
Un tempo, soprattutto quando il sistema pensionistico non esisteva ancora, gli uomini lavoravano finché se la sentivano e finché ne avevano bisogno
Ieri una delle notizie che maggiormente ha segnato la cronaca pugliese è stata la morte su un cantiere di Monopoli di due operai di Conversano. Si chiamavano Vito Germano e Cosimo Lomele, e avevano rispettivamente 64 e 62 anni. Nonostante normative e controlli, non sempre sufficienti, di lavoro si continua a morire - in Italia e nel mondo intero. E tuttavia, per quanto le normative e i controlli possano essere stringenti ed efficaci, ci sono lavori dove è praticamente impossibile il rischio zero. È un’amara verità, che sarebbe disonesto tacere per buonismo o per facile populismo.
La notizia ha rattristato tutti, come sempre rattristano notizie del genere. Ma a colpire più ancora l’opinione pubblica è stata l’età dei due operai. Un’età che noi siamo ormai portati a considerare incompatibile con lavori manuali di una certa fatica e di una certa responsabilità. Perché per quanto l’età media sia aumentata molto nell’ultimo mezzo secolo, l’età media della percezione del nostro invecchiamento si è di gran lunga abbassata. E questo non è un bene, obiettivamente.
Un tempo, soprattutto quando il sistema pensionistico non esisteva ancora, gli uomini lavoravano finché se la sentivano e finché ne avevano bisogno. Poi, con l’arrivo delle pensioni e dei diritti dei lavoratori, la sensibilità generale del Paese è cambiata, tanto che oggi noi facciamo fatica a considerare dignitoso il lavoro manuale per un ultrasessantenne. Un uomo dopo i sessant’anni ormai viene percepito come un corpo fragile, e tragedie come queste - sulle quali non si usa la parola fatalità solo perché costa il rischio del fraintendimento e del facile anatema – confermano la convinzione che, dopo una certa età, si debbano fare lavori facili, oppure mettersi, come dice il burocratese previdenziale, in quiescenza.
A quest’altezza del discorso è evidente una paradossale contraddizione. Il sistema mediatico e valoriale dominante non fa altro che affermare che anche dopo i sessant’anni è possibile fare praticamente tutto – finanche un figlio, per un uomo. Poi però, quando assistiamo a tragedie del genere, ci viene automatico pensare che non è giusto, che non è normale che operai dell’età di Germano e Lomele vadano in cantiere a fare lavori che comportano qualche rischio. E allora due sono le cose: o non è vero che dopo i sessant’anni si può fare tutto, oppure dobbiamo abituarci a essere meno suggestionabili, e a considerare con maggiore freddezza la dura realtà della vita.
Se al posto di Germano e di Lomele ci fossero stati due operai giovani, sarebbero morti ugualmente? Ecco una domanda che vale la pena di porsi. La risposta, probabilmente, è sì. Tra l’altro gli operai con maggiore esperienza sono anche quelli più prudenti, e difficilmente azzardano mosse che possano mettere in pericolo le loro vite. Ma il rischio zero, purtroppo, non esiste. E se qualcuno lo sostiene, vuol dire che non sa cosa significa costruire un edificio, una diga, guidare un Tir o lavorare in una acciaieria.
Ovviamente sarebbe facile in queste ore - per l’opinione pubblica, per i sindacati, per gli indignati permanenti - costruire narrazioni melodrammatiche e strappalacrime. Il dolore dei famigliari dei due operai è atroce, e francamente mancano le parole per provare a lenirlo almeno un poco. Ma i professionisti della retorica, nel mentre ottengono qualche applauso, di fatto sclerotizzano la capacità generale di analizzare la realtà.
Facile sarebbe dire: dopo i sessant’anni nessuno faccia lavori gravosi. Ma questo non è possibile, perché non tutti hanno la fortuna di fare lavori «di concetto» - come si diceva un tempo - oppure di ottenere «scivoli» che conducano al pre-pensionamento.
Ci sono uomini e donne che devono lavorare fino al giorno della pensione, e a volte anche oltre, perché se hai una pensione bassa e hai la responsabilità economica di qualche famigliare, è inevitabile continuare a lavorare, anche quando sarebbe più comodo e giusto godersi il «meritato riposo», come si dice con una frase non proprio entusiasmante. La soluzione non può però essere un assistenzialismo statale assoluto.
Fa male, la morte di questi due operai. Ma non erano vecchi. Non sappiamo come stessero di salute - a quell’età si ha per forza di cosa qualche problema - ma, ecco, non erano vecchi. Dirlo contraddice tutto questo sentire comune che porta a spingere sempre più in avanti l’età in cui si possono ancora fare le cose. È impopolare dirlo, ma per millenni si è anche lavorato, a quell’età.
Certo, le forze non sono come quando si è giovani, ma quello che non fa la forza lo fa l’esperienza, e sui cantieri l’esperienza serve come il pane.
E allora proviamo ad avere meno paura della percezione della nostra fragilità, della nostra debolezza, della nostra vecchiaia. La vecchiaia arriva sempre più tardi, ma la nostra percezione di essere ferrivecchi da buttare arriva sempre più anticipatamente. E questo, ripetiamo, non è un bene. Lavorare rende anche vivi, e non fa meno male sentirsi da buttare non appena le forze vengono meno.
Germano e Lomele sono morti ed è atroce. Ma erano vivi, stavano nella vita, avevano bisogno, lottavano ancora. Solo, non meritavano di morire. Come non merita di morire chiunque guadagni col sudore della fronte il proprio pane quotidiano.