L'opinione

Gli errori storici del centrosinistra e la scarsa memoria di tutti su quel «Titolo V» caduto dal cielo

Francesco Alicino

Tutti la giudicano «scellerata», un «monumento di insipienza giuridica»

Nel 2000 il centrosinistra lancia la riforma del Titolo V della Costituzione. Entra in vigore l’anno dopo. Ne passano venti e nessuno se ne assume la paternità: è come se fossa caduta dal cielo. Tutti la giudicano «scellerata», un «monumento di insipienza giuridica». Elettori onesti si aspetterebbero interventi riparatori. I più disincantati sottolineano l’ipocrita tendenza della politica a sorvolare sulla mischia delle esperienze. I fatti danno ragione a questi ultimi: anziché proporre soluzioni alternative si solcano quelle esecrabili dei primi anni 2000. A renderlo evidente è l’autonomia differenziata di cui al novellato articolo 116 (comma 3) della Costituzione: prevede la possibilità di attribuire ulteriori competenze a Regioni a statuto ordinario, mediante leggi approvate dal Parlamento in base a intese fra lo Stato e gli enti regionali interessati. Sulla necessità di una sua attuazione si lanciano ancora una volta i Governi di centrosinistra. Ad esempio, nel febbraio 2018, l’Esecutivo a guida Gentiloni firma intese preliminari con Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto. Nel secondo Governo Conte è il Ministro Boccia a dare il suo contributo: nel settembre 2019 dichiara di non voler «perdere tempo, l’autonomia differenziata si farà entro la legislatura». Il piano non gli riesce a causa del COVID-19 che, peraltro, risalta i nefasti effetti del riformato Titolo V sul servizio sanitario nazionale: un altro stimolo per tornare sui propri passi. Non così per gli iniziati del federalismo italico, che non hanno motivi per disperare: la via dell’insipienza normativa è sempre lastricata di nuove prospettive.

Lo sono quelle marcate dal Governo Meloni e dal turbo Ministero capeggiato dall’On. Calderoli, autore del disegno di legge approvato in Consiglio dei Ministri a pochi mesi dall’insediamento. Un trattato di vuote frasi ad effetto e contradittorie, esempi a contrario di come si devono scrivere le leggi. Lo si evince dal procedimento per i trasferimenti di competenze: in ordine cronologico e non logico, è segnato dalle intese Stato-Regioni e dalla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (LEP). In entrambi i casi il ddl Calderoli eleva ad attori principali gli organi regionali e il Governo in carica, rispetto ai quali il Parlamento veste i panni della comparsa. Ad ornare la vicenda subentrano non meglio precisate commissioni paritetiche, pure stabilite d’intesa e con l’avallo del Presidente del Consiglio. Il quale fissa i LEP utilizzando i famigerati DPCM: durante l’emergenza pandemica Giorgia Meloni aveva ad essi attribuito l’appellativo di provvedimenti «ridicoli da telenovela»; ora è il suo Governo a vestirli di dignità giuridica, oltremodo pericolosa.

Tanto più che nel ddl Calderoli la coesione territoriale e i doveri di solidarietà sono relegati ad azioni di promozione. Quando, invece, il medesimo progetto apre a un indecente mercato delle competenze. È lo stesso turbo Ministro a ribadirlo con un dossier di 81 pagine: leggendole si scopre come dalle 23 materie suscettibili di essere trasferite ai sensi dell’art. 116 Cost. possano miracolosamente derivare più di 500 funzioni. Se fossero concesse a una piccola parte delle Regioni (ad esempio, quelle situate a Nord della Penisola), la Repubblica italiana chiuderebbe i battenti senza defatiganti revisioni costituzionali e noiosi dibattiti accademici. Una morte per consunzione. Tale sarebbe l’effetto anche se le funzioni trasferite fossero in numero assai inferiore ma centrali nell’organizzazione statale, quali l’istruzione, la ricerca, l’università, il lavoro, i trasporti, l’energia, i beni culturali e la salute.

In ogni caso la selezione delle funzioni disegnerà un nuovo ordine costituzionale, consentendo o impedendo politiche di eguaglianza formale e sostanziale. Quali sono, quindi, i criteri per governarla? Quelli derivanti dalla disponibilità dello Stato centrale? Oppure quelli definititi dalle Regioni? L’autore del fu «porcellum» stilerà una classifica di funzioni o si affiderà ai gradimenti regionali? Insomma, chi decide cosa? Nessuna risposta dal ddl Calderoli. Poco importa, sembra dire la Conferenza Stato-Regioni, che lo ha approvato in linea con l’attuale geografia politica e le annesse tifoserie: sì dalle Regioni in mano al centrodestra, no dalle altre. Impressionanti le dichiarazioni di alcuni Presidenti delle Regioni del Sud: aderendo al progetto Calderoli, si appigliano al bisogno di definire prima i LEP. Dimostrano ignoranza o mala fede.

L’esperienza attesta che in questo ambito si rimane inchiodati alla spesa storica. Di più, i livelli essenziali di assistenza sanitaria (i LEA), gli unici fissati fino ad ora, comprovano che l’autonomia differenziata può prescindere dai LEP. Lo sottolinea, fra gli altri, la nota dell’ANCI del 1° marzo 2023, in cui si paventa il pericolo di un neo-centralismo regionale a danno delle amministrazioni locali.

A impressionare è allora anche l’assenza di informazione, vieppiù alimentata dall’opposizione, a cominciare dal PD. Lo vediamo cinicamente perseverare nell’errore, insistendo sull’art. 116.3 Cost. senza porsi il problema di riformarlo (come fa la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare di www.cordinamentodemocraziacostituzionale.it). Ma, si sa, la divina Speme è l’ultima a salire sul sepolcro. Potrebbe, ad esempio, ridestarsi con la nuova segreteria di Elly Schlein. Salvo poi leggere della «rinnovata» direzione del Partito e delle dichiarazioni dei suoi «giovani» esponenti, innanzi ai quali la dea speranza non può che riprende mestamente la salita. Non resta che confidare in umili e dignitose smentite.

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