L'opinione
Lo scandalo Qatar-Ue rivela la fragilità dei controlli sulle lobby
Si scopre così che lo scandalo delle mazzette associato agli affari del Qatar è forse la punta dell’iceberg di un problema che riporta l’attenzione non solo e non tanto sulla mancanza di regole democratiche, quanto e soprattutto sul loro grado di efficacia
Lo scandalo del Qatar-Gate accende i riflettori sulla relazione tra affari privati e poteri pubblici. Accanto alle ipotesi di reato, emergono problemi di fondo riguardanti la debolezza dei partiti politici e il funzionamento delle istituzioni democratiche. I professionisti della disciplina dei gruppi di pressione sono rimasti spiazzati. Nel nobilitare la funzione rappresentativa delle lobby, hanno sempre declamato le virtù del sistema di regole sulla trasparenza dell’Unione europea, sponsorizzandone l’adozione a livello statale. La realtà dà conto di un quadro differente. Quando non inutili, queste regole si risolvono in una indecente eterogenesi dei fini: forniscono alibi formidabili a fenomeni corruttivi alimentati da interessi particolari, locali e personali. Succede quando non si ragiona oculatamente sul reale impatto delle disposizioni, sull’effetto pratico dei fatti normativi.
Lo dimostra il Registro per la trasparenza dell’Ue, il cui meccanismo si riduce ad una mera raccolta di dati che, dopo l’accordo interistituzionale del 2021, riguarda le società operanti presso il Consiglio, la Commissione e il Parlamento. Se ne contano 12.443, ognuna delle quali può accreditare un numero imprecisato di lobbisti. Chi li controlla? Nove dipendenti, le cui verifiche si limitano ai requisiti dei soggetti registrati, molti dei quali dichiarano di spendere meno di 10mila euro l’anno in attività lobbistica, quando invece altri dicono di superare i 10 milioni. Il che getta una ombra inquietante sull’attendibilità di informazioni spontanee su cui il sistema del Registro interviene con regole e controlli inefficaci.
Nulla infatti impone ai deputati e ai rappresentanti delle istituzioni circa le situazioni patrimoniali all’inizio e alla fine del mandato. Nessun vincolo presenta in tema di revolving doors con le sue torbide regressioni sul conflitto di interessi (basti dire che il 50% dei lobbisti di Google ha precedentemente lavorato nelle istituzioni dell’Ue). Nessun impegno è previsto per i rappresentanti dei Paesi terzi e per gli ex europarlamentari, come dimostrano le vicende riguardanti Pier Antonio Panzeri e i diplomatici qatarioti e marocchini. Per non parlare del fatto che soltanto i presidenti di commissione e i relatori dei testi legislativi hanno l’obbligo di rendere pubblici gli incontri con i portatori di interessi, gli altri parlamentari sono solo incoraggiati a farlo.
A queste condizioni, fossi un lobbista con tendenze corruttive accorrerei a iscrivermi al Registro: oltre a poter girare libero fra e nelle istituzioni, potrei enfaticamente esibire l’accreditamento come specchietto per le allodole, quale segno ingannevole di onestà e trasparenza. E, a queste condizioni, mi chiedo pure come mai non si intervenga sui regolamenti e sui codici di condotta già esistenti, rendendoli più stringenti in questa materia.
Si scopre così che lo scandalo delle mazzette associato agli affari del Qatar è forse la punta dell’iceberg di un problema che riporta l’attenzione non solo e non tanto sulla mancanza di regole democratiche, quanto e soprattutto sul loro grado di efficacia. Sotto una data soglia, la disciplina sui comportamenti etici vaga confusamente in balia di norme fluide e modellabili. E, si sa, nelle democrazie costituzionali a siffatte norme corrispondono partiti oscenamente deboli e lobby cinicamente potenti, con giudici chiamati periodicamente a supplire alle carenze della politica. Il caso italiano di Mani Pulite, prima, e quello del Qatar-Gate, dopo, lo dimostrano in modo plateale.