Il ricordo

Altro che cancel culture: ripartiamo da Lando per capire il maschio in crisi

Enzo Verrengia

L‘eredità di Buzzanca? L’arte di rendere nell’immediato tutto quanto di irrisolto c’era e resta nella virilità mediterranea

I film che Lando Buzzanca interpretò con grande successo negli anni ‘70 secondo i criteri attuali sarebbero tacciati di maschilismo, sessismo e politicamente scorretto. Ma, come recita il motto di Hugo von Hofmannsthal, «la profondità va nascosta. Dove? Alla superficie». E quei ritratti di vichingo venuto dal sud, di homo eroticus e di uccello migratore, fra gli altri, nascondono alla superficie la satira del maschio italiano che sconfina dal boom economico alla società complessa e post-moderna successiva. In cui, soprattutto, l’emancipazione femminile passava anche per l’eros.

Si prenda Il merlo maschio. Niccolò Vivaldi, condannato paradossalmente all’oscurità proprio da quel nome così emblematico, non è un esibizionista affetto dal complesso di Lot, titolo del racconto di Luciano Bianciardi cui si ispira il film. Cerca un riscatto sociale, più che sessuale, utilizzando il suo bene più vistoso: la moglie. La quale, a sua volta, sembra ritrarsi e poi subire la patologia del marito, eppure alla fine trova gratificazione in un gioco perverso dove la figura dominante è proprio lei.

Purtroppo, la sottigliezza analitica non apparteneva di certo a platee maschili per nulla interessate a confrontarsi con se stesse, ma loro sì preda di un voyeurismo di massa che i produttori sfruttavano anche affidandosi a registi di ottimo rilievo autoriale, compreso il Pasquale Festa Campanile de Il merlo maschio e il Luciano Salce di Io e lui, tratto addirittura dal romanzo di Alberto Moravia.

Strano che il carisma del «primo» Buzzanca si sovrapponga alla memoria brevissima dei telespettatori odierni, cui ha proposto antieroi di immenso spessore, quali il padre messo di fronte all’omosessualità di Mio figlio e i tormenti crepuscolari de Il restauratore.

Sul piano attoriale, le due serie hanno dato a Buzzanca il modo per dimostrare una capacità recitativa straordinaria. Soltanto che questa non andava disgiunta da quella precedente. Anche nelle esibizioni sarcastiche di testosterone, Buzzanca bucava lo schermo. Tenuto conto che nessuna delle sue partner, a partire da Laura Antonelli, era una vierge souillée da feuilleton, l’innocente traviata dalle gioie del sesso. Chiamato in causa linguisticamente, il francese rimanda a un altro problema legato a quella cinematografia.

Dopo gli anni ‘70 vennero gli ‘80, quelli degli «orfani», come definì i post-sessantottini Giuliano Zincone sul celebre editoriale del «Corriere della Sera», del riflusso, dell’edonismo reaganiano e della sculacciata spiattellata sulla copertina di un settimanale di politica e costume. Ne risentì la commedia osè, che degenerò nel soft-core delle varie supplenti, dottoresse dei distretti militari, poliziotte, ecc.

I francesi stigmatizzarono quelle nuove produzioni con un epiteto inequivocabile, les films du cul. Se non fosse che il nuovo filone era del tutto estraneo a quello della decade appena terminata. Innanzitutto per la qualità del casting. Con tutto il cult che si vuole, nessuna starlet delle docce e dell’intimo burlesque reggeva il confronto, per esempio, con la Rossana Podestà di Homo eroticus. Anche i caratteristi di contorno a Buzzanca erano formidabili.

Allora qual è la vera eredità artistica del divo siciliano? Lo si è detto: l’arte di rendere nell’immediato tutto quanto di irrisolto c’era e resta nella virilità mediterranea. Che oggi non si può eliminare applicandovi la cancel culture. Semmai, bisogna partire proprio da quell’epopea scollacciata ma mai volgare per ridiscutere i modelli di una società ancora patriarcale nonostante il politicamente corretto che imperversa.

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