Il commento
Quel grido di libertà soffia dall’Iran sulla nostra indifferenza
Si sta disputando una partita dalla quale potrebbe scaturire la più grande rivoluzione nonviolenta del XXI secolo
Mentre vanno avanti i Mondiali di Calcio, in Iran si sta disputando una partita dalla quale potrebbe scaturire la più grande rivoluzione nonviolenta del XXI secolo: la partita tra il regime teocratico e donne che, per i loro diritti, stanno sfidando gli ayatollah anche a costo della loro vita. La correlazione tra il campionato mondiale e gli sconvolgimenti in atto nella repubblica islamica non è solo un espediente retorico. Acquista significato perché fra i principali bersagli della repressione del regime ci sono proprio le donne dello sport: quelle che girano il mondo, quelle che rifiutano di cantare l’inno, quelle che togliendosi il velo durante una scalata o una partita di volley di fronte alla comunità internazionale danno corpo e voce a tantissime ragazze come loro disposte, in patria, a farsi imprigionare, picchiare, condannare a morte.
Non è scontato che la rivoluzione nonviolenta iraniana uscirà vittoriosa. E’ certo però che nessuna rivolta del passato aveva mai assunto simili proporzioni. Il regime questa volta non può accusare i dissidenti di istigare alla guerra civile, perché essi non fanno uso di armi o appelli alla violenza ma sono pronti a farsi percuotere, arrestare, ammazzare. Anche per questo segnali di vita da parte di quel ceto medio che, volente o nolente, ha fin qui appoggiato la teocrazia iniziano a percepirsi. E la storia insegna che, in questi casi, basta poco perché la pentola si scoperchi. La solidarietà internazionale può essere decisiva: è valso per l’Europa dell’est come per il Cile.
L’Italia, però, appare distratta se non proprio refrattaria. Assai più attenta a un mondiale di calcio al quale non prende parte che alla vicenda di una pallavolista madre di tre figli condannata a morte perché accusata di aver sferrato un calcio a un paramilitare durante una manifestazione. Ciò vale per l’opinione pubblica così come per la politica ufficiale. Non c’è stata ancora una manifestazione di solidarietà e da parte dello stesso governo – ma non solo del governo - le posizioni fin qui esternate sono apparse troppo flebili per poter lasciare un segno.
Questo diffuso atteggiamento italico potrebbe in teoria essere spiegato come un residuo di antioccidentalismo e antiamericanismo che in passato, proprio a proposito dell’Iran, ha portato gran parte della politica italiana a sbagliare. Era il 1978 quando il Pci e ampi settori della sinistra indissero una grande manifestazione a sostegno della rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeyni, contro un governo che aveva posto in atto il più ardito tentativo di laicizzazione di un Paese mussulmano dai tempi di Ataturk. E furono molti gli intellettuali laici e persino moderati a condividere con il più grande partito della sinistra quel clamoroso abbaglio.
L’interpretazione tuttavia non convince. Il Pci e la sinistra italiana (ivi inclusi ampi di settori della sinistra laica e azionista) erano allora affetti da un insuperabile pregiudizio nei confronti di tutto ciò che si avvicinasse a una società capitalista. Per cui qualunque cosa apparisse «altro» rispetto all’Occidente meritava considerazione. Fosse pure una rivoluzione fondamentalista e teocratica. Da allora però - e grazie al cielo - tanta acqua è passata sotto i ponti. Il Pci non c’è più, e la mutazione lo ha trasformato in un partito radicale di massa attento ai «diritti» fino al punto di confonderli con i desideri individuali. E poi, nel caso dell’incendio divampato a Teheran ai nostri giorni, la timidezza non riguarda solo un settore dello schieramento politico ma la politica tout court.
Non convince neppure l’eventualità di tirare in ballo la «ragion di Stato» o la nostra tradizionale disattenzione verso la politica estera. I motivi che potrebbero consigliare prudenza all’Italia, infatti, valgono anche per altri Paesi europei e occidentali che invece si sono esposti molto di più. E, a dirla tutta, quanto sta accadendo in Iran va rubricato sotto la voce «difesa dei diritti fondamentali della persona», più che «politica estera».
Io credo che la ragione di fondo sia un’altra. Il fatto è che esiste oggi in Italia un assai forte partito trasversale della paura. E c’è poi un altro partito, di notevoli dimensioni: quello del controllo sociale. Non vi è, invece, un partito della libertà. Né a destra né a sinistra.
Intendiamoci: nella storia del nostro Paese le correnti liberali sono sempre state minoritarie. E i tempi sono quelli che sono. La narrazione (ancor più che la realtà dei fatti) vuole che siano tempi di difficoltà economica e di austerità forzata. Resta il fatto che nell’Italia di oggi la politica, e ciascuno a suo modo, tende a proporre chiusure piuttosto che allargare gli orizzonti. Presta attenzione al particolare piuttosto che a conquistare nuovi spazi di libertà per tutti; a legittimare atteggiamenti di prevenzione verso l’altro anziché puntare sull’empatia, la comprensione, la disponibilità.
Accade così che di fronte a taluni eventi epocali si assista a un deficit di iniziativa, nei casi in cui (a differenza ad esempio della guerra in Ucraina) non è in gioco il vincolo esterno. E non c’è nemmeno più una Oriana Fallaci che abbia il coraggio di incalzare ed essere sfrontata verso il potere, per quanto trionfante. Era il 1979 quando a un Khomeyni che le chiedeva: «Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà?», lei rispondeva: «La libertà... Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre... E anche alloggiare dove si vuole... Esercitare il mestiere che si vuole». Mezzo secolo più tardi, quel concetto di libertà così semplicemente espresso da Oriana è divenuto la bandiera di una protesta di massa solo qualche anno fa inimmaginabile. Noi però non ce ne vogliamo accorgere e restiamo girati da un’altra parte.