Il commento

Tutti contro Elon Musk, ma Twitter ha bisogno di un visionario dirompente

Antonello Garzoni

I sostenitori di Musk, che credono alla sua capacità visionaria e al voler estrarre valore da una piattaforma molto conosciuta, ma che dalla sua nascita non ha mai prodotto un dollaro di profitto per i suoi azionisti

Da quando Elon Musk, imprenditore seriale già conosciuto per le sue avventure in PayPal, Tesla e SpaceX, è diventato il nuovo proprietario di Twitter, il mondo si è diviso in due. I sostenitori di Musk, che credono alla sua capacità visionaria e al voler estrarre valore da una piattaforma molto conosciuta, ma che dalla sua nascita non ha mai prodotto un dollaro di profitto per i suoi azionisti. Il resto del mondo, che vede la sua ingerenza nella gestione di Twitter, dopo aver cacciato in maniera eccessivamente teatrale i suoi vertici, un pericolo per la libertà di comunicazione sino ad oggi espressa dai milioni di utenti dell’uccellino blu! Persino il «Financial Times» ha recentemente rappresentato la sua indignazione, dopo che Musk ha costretto i suoi dipendenti nel fine settimana a rientrare in ufficio per immaginare insieme un nuovo modello di business per far ripartire la piattaforma. Se anche il FT inizia ad indignarsi per la violazione del weekend dei manager di un’azienda in forte crisi, ci spieghiamo molto dell’attuale impasse governativa britannica.

Personalmente, non provo simpatia per Elon Musk e per i suoi metodi di gestione alla «una poltrona per due»! Trovo però necessaria una chiarezza sui fondamentali dell’operazione e sulla capacità di visione imprenditoriale che la caratterizza.

Twitter viene fondato nel 2006 da Jack Dorsey e deve la sua fortuna alla decisione di limitare a 140 caratteri ogni tweet, così da dare centralità al messaggio e favorirne la diffusione. Nel 2013, anno della sua quotazione alla New York Stock Exchange, registrava 500 milioni di utenti e 50 milioni di tweet al giorno. Una notorietà mondiale cresciuta nel tempo anche in Europa, facendone la piattaforma preferita da chiunque abbia qualcosa di sensato da dire (per le cose insensate c’è Facebook, vetrina del cosa sto facendo in questo momento).

La soddisfazione degli utenti non trova però altrettanta soddisfazione da parte degli azionisti. Dalla fondazione ad oggi, Twitter ha accumulato costantemente perdite. Rispetto a molte altre società high-tech, il valore dell’azione non è mai decollato e, oggi, quota quasi allo stesso prezzo del suo debutto nel 2013.

Ad occhi esperti, questa situazione è pienamente riconducibile ad una mancanza di chiarezza del modello di business, focalizzato sulla gratuità di accesso e sulla centralità delle entrate pubblicitarie che contano per il 90% del fatturato. L’altro 10% è dato dalla vendita di dati a pacchetto.

L’ingresso di Musk porta ad una totale revisione del modello di business, passando dall’idea del «tutto gratis» ad un abbonamento da 8 dollari al mese (per chi pubblica e non per chi legge). Secondo Musk vanno «tassati» gli editori per i loro contenuti prodotti (cosa in sé sorprendente e innovativa, perché di solito gli editori, soprattutto se famosi, vengono pagati per il loro diritto d’autore, anziché dover pagare per scrivere).

In realtà, in questo tentativo di riequilibrio, Musk fa leva sull’identità di una piattaforma che oggi è la più seguita dai giornalisti di tutto il mondo e su cui l’informazione prodotta ha una immediata ripercussione sulle notizie. E in un mondo dell’informazione così veloce come quello odierno, la rapidità di diffusione della notizia è un valore.

Peraltro, l’era del «tutto gratis» nel mondo di internet e dei social ha finito il suo ciclo e oggi non è più sostenibile non solo economicamente, ma anche socialmente. Essa infatti nasconde la grande insidia della vendita dei dati a terze parti per pubblicità o altri scopi (come ad esempio l’analisi dei dati in maniera aggregata, per valutazione di lanci di nuovi prodotti e campagne marketing). Senza arrivare a quanto accaduto per Cambridge Analytics, dove la finalità di manipolazione dei dati è stata usata in modo illecito, emerge una questione sociale di estrema importanza: non desideriamo che i nostri dati vadano in giro così liberamente! Così oggi preferiamo modelli di business a pagamento, dove non abbiamo interruzioni pubblicitarie e possiamo contare su servizi aggiuntivi. Netflix e Spotify sono gli apripista di questi modelli senza pubblicità e poco social, dove però si apprezzano i contenuti e i servizi.

E anche gli altri big del mondo high-tech, come ad esempio Meta (Facebook), sono in affanno per il loro modello ancorato alla gratuità e alla pubblicità.

Allora, in un’azienda che non fa profitti da 10 anni, dove la possibilità di bancarotta è sempre alle porte, ben venga un visionario che stravolge in chiave dirompente l’esistente, se è capace di riportare in asse un così importante mezzo di comunicazione e consentirne lo sviluppo futuro.

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