La memoria

Vidi la strage di via D’Amelio e a trent’anni di distanza apro lo scrigno dei ricordi

Nicola Fragassi

Io c’ero davvero e raccontai dalle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno, quei giorni che fecero la storia del nostro Paese e che scrissero pagine fondamentali per la guerra alla mafia

Per non dimenticare. Io non dimenticherò mai! Non preoccupatevi, non è l’attacco stereotipato di un post social dei tanti che vogliono surfare sull’onda lunga dei luoghi comuni in anniversari come questo. Io c’ero davvero ed a distanza di trenta lunghi anni non dimentico (ma nemmeno lo voglio) quelle emozioni, quelle sensazioni, quelle scene, quelle lacrime, quei momenti di tensione scatenati da una tragedia come quella della strage di via D’Amelio. Io c’ero davvero e raccontai dalle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno, quei giorni che fecero la storia del nostro Paese e che scrissero pagine fondamentali per la guerra alla mafia. A trent’anni di distanza, ho deciso di aprire lo scrigno dei ricordi e raccontare, come fosse un diario.

Ero arrivato in Sicilia ventiquattr’ore prima della strage, precisamente a Patti inviato dal giornale al seguito del compianto avv. Paolo Pinto che, proprio in quei giorni, aveva in programma un’altra delle sue imprese: la traversata a nuoto dello stretto di Messina. La mattina del 19 era trascorsa in tranquillità con Pinto alle prese con gli allenamenti. Intorno alle 16 di quel pomeriggio bussano alla porta del mio bungalow, un addetto della reception del villaggio che ci ospitava mi invita ad andare in ufficio per una telefonata urgente. Nel 1992 i cellulari in giro erano ancora pochi, io ne avevo uno ma il segnale… Dall’altro capo del telefono sento la voce del mio capocronista di allora, Dionisio Ciccarese, che mi dice di andare immediatamente a Palermo perché «hanno ucciso il giudice Borsellino e la sua scorta». Io, giovane cronista, mi faccio prendere dal panico e dalla paura di non essere all’altezza. Ho ancora impresse nella mia mente (e nelle mie orecchie…) le urla (non solo di incoraggiamento…) del mio capo che mi ordina di fare i bagagli e catapultarmi in via D’Amelio. Lo ringrazio ancora perché lui era già convinto che io fossi all’altezza. E così fu…

Corro al volante della mia auto e parto per Palermo, un viaggio lungo, difficile perché in quegli anni le strade di collegamento tra Messina e Palermo non erano così «comode». Se a questo si aggiungono i mille interrogativi che affollano la mia mente, il quadro è davvero completo. Durante il lungo tragitto ci pensa il caro collega Manlio Triggiani a tenermi informato sui fatti: in auto c’è un cellulare fisso che, quello sì, riesce a captare il segnale anche tra tornanti e strade impervie della Sicilia più interna. Tra un aggiornamento e l’altro, arrivo a Palermo, è la prima volta che sono nel capoluogo siciliano e non ho proprio alcuna idea di dove possa essere via D’Amelio. I navigatori? Trent’anni fa, al massimo c’erano le piantine delle città. Ma non ho bisogno di alcun aiuto perché è sufficiente mettermi all’inseguimento delle decine e decine di auto di polizia e carabinieri o dei mezzi di soccorso per arrivare a pochi metri da via D’Amelio. Con il cuore in gola, arrivo fino all’inizio di quella che è diventata la strada simbolo della lotta alla mafia.

Ovviamente, c’è una barriera umana di uomini delle forze dell’ordine, l’ingresso alla strada è delimitato dal classico nastro bianco e rosso. Mostro il tesserino professionale e, stranamente, mi fanno passare senza fare storie e a distanza di 30 anni ho capito il perché: volevano che tutti noi della stampa testimoniassimo cosa fosse accaduto vedendolo con i nostri occhi.

Il tragitto dall’inizio della strada all’area dell’esplosione è un vero incubo: per terra ci sono fogli, cartelline, indumenti, vetri e… tanto altro. E schiuma, una marea di schiuma utilizzata dai vigili del fuoco. A trent’anni di distanza, quando qualcuno mi chiede la prima sensazione di quel giorno rispondo secco: non so ancora oggi cosa io abbia calpestato sotto i miei piedi…

Negli occhi di tutti si legge disperazione e rabbia, la colonna sonora di quel pomeriggio è fatto dal rumore assordante dei mezzi dei vigili del fuoco che sono ancora al lavoro e dal suono delle sirene che rompe il silenzio degli altri quartieri della città, quelli più distanti dal luogo della strage, una città ancora incredula di quanto la mafia avesse alzato il tiro.

Faccio domande, non ottengo risposte, vedo uomini e donne piangere ed anche il mio viso comincia a rigarsi di lacrime: penso a vite spezzate, sogni infranti, mogli diventate vedove e figli orfani. E la rabbia di quanto dolore l’uomo possa causare. Devo recuperare la lucidità perché in redazione aspettano il mio pezzo. E allora, torno in auto, prendo penna e taccuino e scrivo. Scrivo quello che ho visto, racconto le mie emozioni e detto il pezzo per telefono: i colleghi della Cronaca di Bari si trasformano in dimafoni per cercare, così, di ridurre i tempi e dare alla direzione il testo per la prima pagina.

Trent’anni e quelle emozioni e sensazioni sono sempre le stesse, non cambiano, non si cancellano e mai verranno cancellate. Così come, quelle stesse lacrime tornano a rigare il mio viso al ricordo di quelle vite spezzate, di uomini e donne che si sono sacrificati per rendere migliore la nostra amata Italia.

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