L'analisi

Ma la Nato si è spinta troppo a Est

Leonardo Petrocelli

Putin dalle finestre del Cremlino vede un Occidente che lo taccia di fascismo e poi gli scatena contro i reggimenti di neonazisti

E se provassimo a metterci dalla parte del diavolo? E se provassimo, come diceva Bertolt Brecht, a sederci dalla parte del torto perché tutti gli altri posti sono occupati? Corre il 2 maggio del 2014. La Primavera ucraina, quella dell’Euromaidan, è scoppiata da un pezzo e nel Donbass è esplosa la protesta della componente russa. Non vogliono rimanere nell’Ucraina europeizzata e in odor di Nato, temono (a ragione) rastrellamenti, guardano alla patria naturale, cioè Mosca. Il megafono occidentale ci restituisce l’immagine di miliziani sanguinari assoldati dal presidente russo Vladimir Putin per sabotare un sincero processo democratico mentre studenti e casalinghe fremono per trascinare Kiev nella sfera occidentale. Il racconto regge fino al giorno della strage: a Odessa 48 persone muoiono bruciate vive nel rogo della Casa dei sindacati dove avevano cercato riparo. Sono simpatizzanti russi e militanti di sinistra. Ad appiccare l’incendio le frange paramilitari neonaziste di Pravij Sektor, il partito di ultradestra ucraino proliferato nel mito di Stepan Bandera che collaborò con i tedeschi in funzione antisovietica.

A quel punto non si può più mentire. Il re è nudo. Le foto iniziano a circolare e non si riesce a fermarle. La causa ucraina non è priva di svastiche, di croci celtiche, di estremisti di destra con la testa rasata e le armi in pugno. E non solo nel Donbass. In piazza Maidan a Kiev, cuore incantato della primavera gialloblu, il servizio d’ordine lo fanno sempre loro. Il reggimento Azov, che raccoglie estremisti di destra di mezzo continente, anche italiani, viene inquadrato nella milizia regolare al servizio della nobile causa. «Grazie per il vostro aiuto». In Europa si fa spallucce, quasi fossero «europeisti che sbagliano». Curioso: se Salvini o Marine Le Pen guadagnano voti è tutto uno stracciarsi di vesti per la democrazia in pericolo. Se i nazisti, quelli veri e pure armati, mettono a ferro e fuoco il confine orientale d’Europa va tutto bene. Ma tant’è.

La verità però continua a stare lì. Sfortunatamente alle tv di mezzo mondo continua ancora a sfuggire la natura dei combattenti in campo e così sfilano a tutto schermo interviste a miliziani con la toppa di Bandera al braccio. E il racconto è sempre lo stesso: «Bombardato asilo in Ucraina», battevano le agenzie pochi giorni fa. Peccato che l’Ucraina in questione sia in realtà il Luhansk russo, i bambini siano russi e solo i mortai sono ucraini.

Nei giorni che precedono l’invasione tutto è rovesciato. Latitano anche analisi oggettive sulla causa scatenante del conflitto, quella volontà di allargamento della Nato, missili al seguito, fin sulla soglia della Federazione russa. «Der Spiegel» ha tirato fuori un documento segreto del 1991 in cui gli americani garantivano solennemente ai russi che la Nato - rimasta in piedi, non si capisce perché, anche dopo la fine del Patto di Varsavia - si sarebbe fermata sulle rive del fiume Elba. Una soglia sfondata da tempo. Ora l’obiettivo è addirittura arrivare (al momento con le bandiere, domani chissà) nel salotto del nemico che, curiosamente, non ci sta. Certo, l’Ucraina è, per così dire, un Paese «periferico», ma anche un’isola tutta sigari e canna da zucchero come Cuba lo è, eppure sappiamo cosa stava per succedere sessant’anni fa. Se in ballo c’è un assoluto, cioè il mantenimento degli equilibri globali, la volontà o meno di aderire a un «patto» non dovrebbe essere incoraggiata per desiderio espansionistico, ma subordinata ai rischi generali e al rispetto degli accordi pregressi. Andrebbe spiegato ai democratici americani sempre in fregola d’imperialismo. Quel fronte che con il tanto vituperato Donald Trump si era decongestionato si riaccende ora che Joe Biden si è riconnesso all’eredità ideale di Barack Obama, il premio Nobel per la Pace con sette fronti di guerra sul groppone e 6mila miliardi di dollari (record Usa) spesi in armamenti durante il suo doppio mandato. Ma, orwellianamente, ci sono armi che sono meno armi di altre. Profumano di santità.

E l’Europa? L’Europa ha la colpa storica di aver consegnato Putin ai cinesi facendo saldare un asse cui sarà difficile tenere testa nel lungo periodo. Ma non era un finale già scritto. Mosca ha provato in tutti modi a trovare una sponda nel Vecchio Continente. L’ultimo slancio reca la data del 22 marzo 2021. Putin telefona personalmente a Bruxelles per un estremo tentativo di mediazione. Il telefono squilla ma, purtroppo, dall’altra parte non c’è Angela Merkel che con i russi ha sempre avuto l’intelligenza di trattare, anche solo per questioni di interesse nazionale. C’è il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, quello che non mosse un dito quando il turco Erdogan relegò la presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, su un divano fuori dall’inquadratura. Ebbene, costui ha pensato bene di porre a Mosca condizioni così dure per la ripresa di un dialogo da far saltare la chiamata in pochi minuti. L’altro numero in rubrica era quello di Xi Jinping, felicissimo di rispondere.
Questo, a grandi linee, è ciò che vede Putin dalle finestre del Cremlino. Un Occidente che lo taccia di fascismo e poi gli scatena contro i reggimenti di neonazisti; che lo rampogna sui diritti e poi organizza i mondiali di calcio in Qatar dove i diritti non sono esattamente di casa; che lo accusa di violare le regole e poi ignora gli accordi. E allora verrebbe da chiuderla con la citazione da un vecchio film che parafrasa liberamente John Milton e il suo Paradiso perduto: «Sbalordito il diavolo rimase quando comprese quanto osceno fosse il bene».

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