«Famiglie numerose a rischio»

ROMA - È urgente un piano nazionale di lotta alla povertà che favorisca le famiglie povere con figli, una vera «emergenza sociale» secondo la
Caritas italiana e la Fondazione Zancan, che hanno presentato oggi a Roma il settimo rapporto su emarginazione ed esclusione sociale intitolato "Rassegnarsi alla povertà?". Da qui la proposta di un "Piano di lotta alla povertà".
L'ultimo rapporto dell'Istat nel nostro Paese indica che sono in stato di povertà 2.623.000 famiglie, corrispondenti a 7.537.000 persone, cioè il 12,9% della popolazione, di cui i due terzi vivono al Sud. Un dato che è rimasto «sostanzialmente stabile» negli ultimi cinque anni. «L'elemento di novità emerso dalle diverse inchieste sulla povertà degli ultimi anni - rileva il rapporto della Caritas - è l'aumento numerico non di famiglie povere, ma di famiglie non computabili come povere solo perché le loro risorse finanziarie sono appena sopra la linea della povertà, ossia la superano per una somma esigua che va da 10 a 50 euro al mese». L'Istat calcola che queste famiglie "a rischio di povertà" siano oltre 900 mila. Esse arrivano con difficoltà alla fine del mese, e sono costrette a indebitarsi e a ricorrere ai centri assistenziali, nonostante abbiano un lavoro e un reddito. L'impiego di una linea standard per stimare chi è povero e chi non lo è semplifica molto i confronti, ma non evidenzia i confini mobili del fenomeno.
Come emerge dal Rapporto Caritas-Zancan, un approccio multidimensionale al problema povertà, che non tenga conto solo dell'aspetto monetario, evidenzia che, se la povertà non è aumentata, è cresciuta l'insicurezza delle famiglie italiane per la preoccupazione di non essere in grado di far fronte a eventi negativi come per esempio l'improvvisa malattia, associata a non autosufficienza, di un familiare, o l'instabilità del rapporto di lavoro, o gli oneri finanziari sempre maggiori (ad esempio, mutui a tasso variabile).
Quali sono i "fattori di rischio"? L'elevato numero di componenti (le famiglie con cinque o più componenti presentano livelli di povertà più elevati); la presenza di figli, soprattutto minori; la presenza di anziani; il basso livello di istruzione; la ridotta partecipazione al mercato del lavoro. Qualsiasi fattore si consideri, nel Mezzogiorno le probabilità di essere poveri sono sempre più alte.
A comportare un maggiore rischio di povertà è anzitutto l'allargamento familiare: avere tre figli da crescere significa un rischio di povertà pari al 27,8%, e nel Sud questo valore sale al 42,7%. Il passaggio da 3 a 4 componenti espone 4 famiglie su 10 alla possibilità di essere povere. Appartenere a una famiglia composta da 5 o più componenti aumenta il rischio di essere poveri del 135%, rispetto al valore medio dell'Italia. Ogni nuovo figlio, dunque, costituisce per la famiglia, oltre che una speranza di vita, una crescita del rischio di impoverimento. L'Italia, coscientemente o meno, incoraggia le famiglie a non fare figli. I risultati di una tale politica si vedono: l'Italia occupa uno degli ultimi posti al mondo per indice di natalità.
Andando a sviscerare i dati sulla povertà di fine 2005, si vede che se il 14,7% delle famiglie arrivava a fine mese con molte difficoltà, queste difficoltà erano maggiori per: le famiglie con cinque o più componenti (22,5%) e per quelle unipersonali (16,0%); le famiglie monoreddito (18,7%); le coppie con 3 o più figli (23,5%); le famiglie monogenitoriali (19,4%). L'incapacità di sostenere una spesa necessaria ma imprevista riguardava il 28,9% delle famiglie italiane e in particolare: le famiglie unipersonali (35,6%), anziani soprattutto, e quelle con cinque e più componenti (33,5%); le famiglie monoreddito (37,8%); le famiglie con 2 minori (32,9%); quelle con un anziano (33,3%).
Anche la presenza di un solo anziano nella famiglia, dunque, aumenta il rischio di povertà. Un disagio che si osserva in tutte le ripartizioni territoriali, ma la differenza rispetto alle altre caratteristiche familiari è particolarmente evidente nelle regioni del centro e del nord, che si caratterizzano anche per la maggior presenza di anziani tra la popolazione residente. Da un'incidenza media della povertà del 4,5% nel nord e del 6% nel centro, si sale rispettivamente al 6,3% e all'8% se nella famiglia è presente almeno un anziano.
Se i dati sulla povertà rimangono stabili, viene da chiedersi come è gestita la spesa sociale del nostro Paese. In Italia la spesa destinata all'assistenza sociale è di 44 miliardi e 540 milioni di euro, circa 750 euro pro capite. Utilizziamo circa un quarto del Pil per la protezione sociale: si tratta di un impegno non indifferente, in armonia con altri Paesi (Grecia 26,0%, Regno Unito 26,3%, Finlandia 26,7%), ma significativamente inferiore ad Austria (29,1%), Belgio (29,3%), Germania (29,5%), Danimarca (30,7%), Francia (31,2%) e Svezia (32,9%). Tuttavia, il nostro profilo di welfare si basa su squilibri interni evidenti: più della metà della spesa sociale (56,1%) è destinata alla voce "Pensioni in senso stretto e Tfr". Il resto è ripartito tra le voci "Assicurazioni del mercato del lavoro" (6,6%), "Assistenza sociale" (11,9%), "Sanità" (25,4%).
Gran parte delle risorse vanno all'ultima fase della vita, e molto meno alla prima e al sostegno delle responsabilità familiari. In dieci anni sono aumentate le voci "Pensioni in senso stretto e Tfr" (dal 55,7 al 56,1%) e "Sanità" (dal 20,8 al 25,4%). Sono diminuite le voci "Assicurazioni del mercato del lavoro" (dal 9,0 al 6,6%) e "Assistenza sociale" (dal 14,6 all'11,9%), che ha subìto la contrazione maggiore. Ma chi gestisce concretamente questa spesa? O, meglio ancora, quanto di questa spesa è gestito direttamente dallo Stato e quanto dagli enti locali? La spesa dei Comuni per assistenza sociale al netto della multiutenza è di 5 miliardi e 11 milioni di euro, con un pro capite medio di 86,15 euro. Di conseguenza, dei 750 euro sopra indicati, i Comuni gestiscono solo 86 euro pro capite, mentre la parte restante, pari a circa 664 euro, è gestita dallo Stato o da amministrazioni da esso controllate.
«In attuazione della riforma costituzionale - afferma Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione Zancan - vanno fatte scelte politiche coraggiose per trasferire progressivamente questi fondi a livello regionale e locale, vincolando la loro gestione ad azioni prioritarie di contrasto alla povertà. Attuando così non più politiche basate solo sul sostegno economico e i trasferimenti di reddito, ma su piani di inserimento lavorativo e sociale con sostegno al reddito.
Nel nostro Paese manca una strategia organica di contrasto della povertà. Il Rapporto Caritas-Zancan prende atto di questa situazione e si fa carico di una propria proposta di Piano nazionale di lotta alla povertà, che si basi innanzitutto su due passaggi: "da trasferimenti monetari a servizi" (per un migliore governo della quantità di risorse oggi disponibili) e "da gestione centrale a gestione decentrata" (per una diretta responsabilizzazione nella gestione e nella verifica di efficacia, oltre che per dare attuazione alla modifica del titolo V). Le parti regionali e locali dovrebbero poi definire altrettanti piani di azione regionali e locali di lotta alla povertà, dimensionando obiettivi e risorse in ragione dei risultati attesi di riduzione del bisogno presente nel proprio territorio. Un Piano di lotta alla povertà che abbia al proprio interno non solo obiettivi e finalità ma anche risultati attesi misurabili, che indichi le priorità di azione, le infrastrutture necessarie, che "corresponsabilizzi" i diversi livelli istituzionali (dal locale al regionale, al nazionale, e viceversa) e i diversi centri di responsabilità sociale (imprese, enti non profit, forze sociali, associazionismo di impegno sociale ecc.) in una comune progettualità.
«Un piano condiviso di lotta alla povertà può rappresentare una grande occasione per il nostro Paese e - sottolinea monsignor Francesco Montenegro, presidente di Caritas Italiana - lottare contro la povertà nel nostro paese, vuole dire molto di più che dare qualcosa a chi ha meno, vuol dire sottrarre ad un destino sociale prevedibile di precarietà e marginalità tanti ragazzi e bambini che hanno avuto la sfortuna di nascere nel posto sbagliato, nel quartiere sbagliato, nella contrada sbagliata; contrastare il predominio di una economia criminale in molte regioni del sud, che trova nella povertà di alcuni territori - la possibilità di poter disporre di una "armata di riserva" per il proprio mercato del lavoro; costruire coesione sociale a partire innanzitutto da un senso di appartenenza sociale che le politiche di contrasto alla povertà contribuiscono a creare». E poi aggiunge: «Non abbiamo scritto un libro dei sogni, ma, questo sì, coltiviamo un sogno, lucido e ragionevole. Quello della lotta alla povertà come obiettivo ordinario delle politiche del Paese».
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