Cinema
Riondino: «Ecco il mio film sulla Laf, palazzina lager dell’Ilva»
La pellicola che segna il debutto alla regia dell’attore tarantino Michele Riondino è anche un omaggio a Leogrande
«È una storia accaduta diverso tempo fa, ed è abbastanza naturale non ricordarla. Il dramma è che molti neanche la conoscono. E la cosa peggiore è che in quegli anni la notizia è passata quasi inosservata. Parliamo del primo caso di mobbing, riconosciuto in Italia anche dalla giurisprudenza del lavoro, dopo la sentenza scaturita dal processo». Michele Riondino ha un tono perentorio quando parla di qualcosa che gli sta a cuore. Se poi si discute della città in cui è nato - Taranto - e di quanto si sia speso per lei, in anni di attivismo e battaglie, cuore e ragione convergono.
La storia di cui parla l’attore tarantino (e ora finalmente regista) è quello della famigerata Palazzina Laf (acronimo di laminatoio a freddo), il reparto «lager» dell’Ilva riservato agli operai competenti ma «scomodi». E il film omonimo, che segna l’esordio dietro la macchina da presa di Riondino, ripercorre quella vicenda, ambientandola nell’anno in cui si è verificata, il 1997. Nel film, l’attore interpreta Caterino Lamanna, uomo semplice e rude, uno dei tanti operai che lavorano nel complesso industriale dell’Ilva. Quando i vertici aziendali decidono di utilizzarlo come spia per individuare i lavoratori di cui sarebbe bene liberarsi, Caterino comincia a pedinare i colleghi. Ben presto, non comprendendone il degrado, chiede di essere collocato anche lui alla Palazzina Laf, dove alcuni dipendenti, per punizione, sono obbligati a restarvi, privati delle consuete mansioni. Caterino scoprirà sulla propria pelle che quello che sembra un paradiso è in realtà un inferno senza via d’uscita.
«La storia della Palazzina Laf - spiega Riondino - è quella di una strategia aziendale adottata negli anni, non solo a Taranto, ma anche in altre aziende. Una strategia molto chiara, per costringere il lavoratore al licenziamento. L’articolo 18 impediva al proprietario di licenziare senza giusta causa, e quel reparto serviva proprio per mettere il lavoratore in tali condizioni di disagio da fargli commettere uno sbaglio. E quindi produrre la famosa “giusta causa”. Un vero e proprio luogo di tortura».
Quanto è durata questa esperienza e come è venuta fuori?
«Poco più di un anno, nel 1997. I lavoratori hanno provato in tutti i modi a informare gli organi che avrebbero potuto e dovuto far qualcosa, dai sindacati ai giornali. Hanno scritto lettere al Presidente della Repubblica, al governo, alle commissioni del lavoro parlamentari. E poi c’è stata l’azione di una psichiatra che ha preso in cura qualcuno di loro e ha potuto raccogliere gli elementi di chi finiva in questa palazzina, manifestando diversi tipi di patologie, anche molto gravi».
«Poco più di un anno, nel 1997. I lavoratori hanno provato in tutti i modi a informare gli organi che avrebbero potuto e dovuto far qualcosa, dai sindacati ai giornali. Hanno scritto lettere al Presidente della Repubblica, al governo, alle commissioni del lavoro parlamentari. E poi c’è stata l’azione di una psichiatra che ha preso in cura qualcuno di loro e ha potuto raccogliere gli elementi di chi finiva in questa palazzina, manifestando diversi tipi di patologie, anche molto gravi».
Il film è tratto dal libro di un altro tarantino eccellente come Alessandro Leogrande, «Fumo sulla città»?
«Ho contattato Alessandro nel 2016 dopo aver letto quel libro, e abbiamo iniziato a collaborare alla sceneggiatura. È venuto purtroppo a mancare l’anno dopo, e anche per questo il film vuole essere un omaggio alla sua opera. Leogrande ha scritto un lungo e...
«Ho contattato Alessandro nel 2016 dopo aver letto quel libro, e abbiamo iniziato a collaborare alla sceneggiatura. È venuto purtroppo a mancare l’anno dopo, e anche per questo il film vuole essere un omaggio alla sua opera. Leogrande ha scritto un lungo e...