Libri

Un’oasi di speranza all’ombra dei muri

Roberta De Monticelli

«L’Ulisse di Bil’in» della filosofa De Monticelli: viaggio nella Palestina tragica e ironica, fra religioni e inganni

È in libreria e in edicola il nuovo numero de «Il Mulino», rivista trimestrale di cultura e politica (2/2023), direttore Mario Ricciardi e vicedirettore Bruno Simili. L’ampia parte monografica è dedicata al tema «Serve più Stato?» con contributi, fra gli altri, di Ricciardi, Paolo Gerbaudo, Alessandro Aresu, Laura Pennacchi. In sommario anche un profilo di Aldo Capitini a firma di Piergiorgio Giacché, un focus su «Che succede a destra» e due importanti articoli sul Medio Oriente: «Israele e la democrazia» di Anna Momigliano e «L’anno scorso a Marienbad - L’Ulisse di Bil’in» di Roberta De Monticelli, professoressa ordinaria di Filosofia all’Università Vita-Salute San Raffaele, di cui pubblichiamo lo stralcio iniziale per concessione del «Mulino».

Di Bil’in mi resterà il ricordo di una minuscola oasi di umanità e speranza: il luogo di una storia, una fra mille, che ci vorrebbe un piccolo Omero a cantarla, anzi uno di quegli omeridi della dinastia mediterranea dei cantastorie che ancora mezzo secolo fa magnificavano le gesta d’armi e d’amore dei cavalieri antichi. Forse proprio un puparo siciliano ci vorrebbe, ma all’altezza dei nostri tempi e del loro mainstream di indecifrabile indifferenza al male, un male per lo più legalizzato. Un puparo capace di accendere qualche lampo d’intelligenza e d’ironia sulla scena tragica di questa terra di Palestina, anzi di più: di proiettare un pirandelliano bagliore di umorismo, il sentimento del contrario e dell’incongruo, sul fondale nero dell’ingiustizia e della violenza impunita.

UNA PICCOLA OASI Bil’in, nel mezzo della Cisgiordania o West Bank, a meno di una dozzina di chilometri a Ovest di Ramallah, si trova a circa quattro chilometri a Est della Green Line (la partizione Onu del 1947, il confine virtuale anteriore al 1967): per una lezione rapida sul modo in cui funziona l’Architettura dell’occupazione è un posto perfetto da visitare. Nonostante con la sentenza consultiva del 2004 la Corte internazionale dell’Aja avesse dichiarato contraria alla legge la costruzione del muro da parte di Israele all’interno dei Territori occupati, il tracciato di quel sistema di muri, barriere e strade a esclusiva percorrenza israeliana, insinuandosi in profondità nel territorio palestinese riconosciuto (invano) dagli accordi di Oslo del 1993-1995, era destinato a spaccare in due l’area del villaggio, privandolo del 60% dei suoi terreni agricoli.

Eppure Bil’in ci era apparsa – quel 3 gennaio 2023, forse la giornata più lunga, forse la più intensa del nostro viaggio di conoscenza in Palestina – quasi come una piccola oasi anche del paesaggio, con la sua strada sterrata e la sua collinetta così ben tenuta, gli alberi, i muretti, i sentieri, i minuscoli orti per la coltivazione «organica». Insomma, quel mezzo chilometro di spazio respirabile, anche dalla parte della marea avanzante di cemento e di protervia. Ma questa è una parte della storia da raccontare e prima occorre farsi un’idea del mondo in cui si svolge.

Un’oasi, sì, ma tanto minuscola quanto incombente. Nella cerchia più prossima dell’orizzonte, ci era subito apparso l’enorme insediamento edilizio dei coloni israeliani: Matityahu East, sobborgo orientale di Modi’in Illit, che «Haaretz» aveva descritto già nel 2007 come «il più grande progetto di insediamento edilizio illegale di sempre», e che in questi venticinque anni è cresciuto ancora a dismisura, se ospita qualcosa come 100 mila coloni. Bisogna guardarla, la carta geografica dell’area, per farsi un’idea della sproporzione fra la città e i minuscoli villaggi cui questa smisurata proliferazione urbana ha sottratto quasi tutta la terra – magra terra di ulivi e di orti – di cui gli abitanti vivevano: Bil’in il più a ridosso, ma poi Deir Qaddis, Kharbatha Bani Harith, Ni’lin.

Bisogna guardarli, minuscoli sulla carta, circondati dalle tortuose volute del muro che li separa dalla gran parte delle loro terre e al contempo condanna queste a diventare «terra morta» – e vedremo cosa questo esattamente significa – ma non certo «terra vuota», come nel sogno di Chaim Weizmann, presidente del Congresso sionista mondiale e primo presidente dello Stato d’Israele: l’uomo che nel 1914 aveva reso popolare l’idea onirica di «un Paese senza popolo per un popolo senza terra».

IL PARADOSSO DELLA CITTÀ DEL LIBRO E qui già ti colpisce, come ovunque in Palestina, un profondo paradosso legato alla topografia israeliana, con il suo sapore di centrifugato di geografia biblica (ma anche spirituale e universale: il pozzo della Samaritana, la tomba di Abramo, la città di Maria, la culla di Gesù) e cartina geopolitica. Che quasi quasi li capisci, quegli ebrei ultra-ortodossi dalle amicizie infrequentabili, quelli di Neturei Karta che Ben Gvir vuole deportare in Siria, perché agitano la bandiera palestinese appena bandita dagli spazi pubblici israeliani dal nuovo ministro. Già: loro detestano la contaminazione del sacro e del profano, della salvezza di Israele che solo il Messia porterà e dello Judenstaat di Theodor Herzl, lo Stato degli ebrei (e non di tutti i suoi cittadini, come Netanyahu ha tenuto a ribadire recentemente). E come non dar più ragione a loro, su questo punto, che agli altri e ben più numerosi ebrei ultra-ortodossi insediatisi invece a Kiryat Sefer, il nucleo originario di Modi’in Illit, nel 1994 (nel pieno degli accordi di Oslo).

Kiryat Sefer: la Città del Libro! Niente somiglia di meno all’idea che questo luminoso nome convoglia – al punto che qui, proprio nella pesantezza materiale e nella distopica accumulazione dell’agglomerato, nel volume, nella densità, nell’estensione di queste masse edilizie, senti veramente non solo avvilita, ma positivamente e quasi diabolicamente irrisa e profanata questa idea, se la conosci.

Perché le religioni del Libro sono quelle che si basano sulla rivelazione di un unico Dio – la sua «parola», e a questa più che allo specifico libro che la raccoglie (Torah, Antico e Nuovo testamento, Corano) si riferisce l’espressione.

Se c’è un punto che questa espressione vuole enfatizzare come comune alle tre religioni è proprio la trascendenza del divino che in essi si annuncia: cosa che in termini semplici significa la sua immaterialità, nel senso di inafferrabilità per mezzo dei sensi, delle mani, dei concetti umani. «Non nominare il nome di Dio invano» – un precetto forse ancora più forte nell’ebraismo (e per quanto riguarda il divieto di farne immagini nell’Islam) – non proibisce certo la vanità nel senso di «vacuità» dei discorsi e delle immagini: non sono la vanitas o i suoi equivalenti nelle lingue dei testi sacri a essere presi di mira da questo comandamento, già a partire da quell’«invano» che traduce una radice ebraica tutta diversa da quella che nel Qohelet significa «vanità delle vanità» (habel habaim), soffio, nulla. Quest’altra parola (shav) significa invece «inganno», «falsità», «malizia»: insomma, la proibizione colpisce la truffa demoniaca di usare il nome di Dio per affari troppo umani. E qui, dove il nome di Dio pare serva al marketing delle imprese edilizie, il senso di blasfemia aggriccerebbe le viscere di chiunque, atei compresi.

Dove il nome di Dio pare serva al marketing delle imprese edilizie Più in generale il divieto è quello di mettere le mani sul divino, di usarlo a scopi politici, di farne strumento di regno o di potere: di metterlo sulle bandiere, dove – come usava dire Simone Weil – i nomi di dio diventano «parole assassine» (e questo è vero di qualunque bandiera, islamiche comprese ovviamente).

Se proprio uno volesse andare a fondo di questo pensiero, dovrebbe aggiungere che le religioni del Libro sono quelle che riconoscono Abramo come il loro capostipite, e che Abramo intanto rappresenta per eccellenza l’uomo di fede (non di religione istituzionale) in quanto «parte verso l’ignoto», secondo la Lettera di Paolo agli Ebrei: come se la mistica del ritorno all’origine qui fosse sostituita da una mistica della partenza, del futuro, forse del venire di chi verrà, e non sappiamo quando. Insomma, forse davvero non avevano torto quegli altri ebrei ultra-ortodossi di Neturei Karta, dagli amici infrequentabili.

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