L'intervista
Fotogiornalismo, i volti e le luci del reporter Giorgio Lotti arrivano a Bari
«Ogni immagine ha le sue emozioni»: l'incontro domani per raccontare decenni di storia
Lo sguardo in un altrove, il volto illuminato da una luce che sa di tramonto: avete presente la notissima foto di Zhou Enlai, degli anni Settanta? Il suo autore, il fotoreporter Giorgio Lotti, sarà venerdì a Bari e racconterà decenni e decenni di fotogiornalismo, attraversanto la Storia e i Paesi del mondo. La sua voce è tutta da ascoltare, perché a 86 anni, dopo aver ritratto eventi storici come l'alluvione di Firenze, la Cina del passato, il mondo del teatro, la cronaca, i paesaggi e le meraviglie, Lotti è un'icona da tutelare.
Fotografa dagli anni Cinquanta e i giornali con i quali ha collaborato evocano un'era: «Il Mondo», «Paris Match», «Epoca», «Panorama» e tanti altri. Le immagini di Giorgio Lotti si trovano nei musei di mezzo mondo, come il Victoria Albert di Londra o quello della Columbia University di New York.
Ma il patrimonio immenso di Lotti, costituito da 475mila immagini di altissima qualità e interesse storico, andrebbe riunito – spiega – a quello degli altri pochi (massimo 10-12) grandi fotografi italiani che hanno fatto la storia del Novecento. Eppure, l'Italia sembra sorda al richiamo. Per questo, ha ben fatto il Politecnico di Bari con la Libreria Laterza a promuovere la conversazione di «Libri e Città» con Giorgio Lotti, prevista per domani alle 16.30 al Palazzo dell’Acquedotto Pugliese (via Cognetti, 36 Bari), che sarà introdotta da Domenico Laforgia, con le relazioni di Nicola Martinelli, Mariella Annese e Michele Montemurro (ingresso libero). In questa intervista, il celebre fotoreporter milanese racconta il suo mondo.
Lotti, cominciamo dai ricordi. A quale immagine delle tante scattate è più affezionato?
«Ogni immagine ha il suo bagaglio di sensazioni ed emozioni. Sono affezionato al reportage dell'alluvione di Firenze, alle foto della Cina e a tante altre. O a quel mondo del teatro e del cinema che ho ripreso, da Gassman a Sophia Loren ai volti dei giorni nostri. In ognuna di queste fotografie c'è un ricordo, un episodio. Come quando andai a fotografare Arafat: aerei, uno spostamento in elicottero e poi l'arrivo in questo palazzo super-sorvegliato in cui mi accompagnavanocinque persone armate, “per sicurezza mia e di Arafat”, spiegavano. Bene, arrivo nella stanza di Arafat, si apre la porta e lui mi viene incontro, facendomi i complimenti per la promozione di mia figlia... Insomma, i servizi segreti avevano setacciato la mia vita. Arafat spostò la kefiah ne prese un piccolo lembo e mi disse: “Questa è la mia Palestina”».
Oggi il mondo del fotogiornalismo è cambiato...
«Molto. Prima l'immagine si studiava con i direttori, i giornalisti. Il pregio era proprio il viaggio con il giornalista, perché lo scatto aveva un'unione con il testo, nasceva all'unisono. Oggi purtroppo è un disastro. I prezzi bassi, le foto a cinque euro, il mondo in cui devono muoversi i fotografi hanno distrutto il fotogiornalismo. Ho 475mila fotografie nel mio archivio, delle quali oltre 300mila sono di altissimo livello e lo stesso hanno i circa 10 fotografi della mia generazione. Servirebbe riunire questo patrimonio e invece nulla, silenzio. Quando sono stato alla Columbia University ho imparato moltissimo, ho rinnovato me stesso. Oggi, a volte, vado con barba e baffi per non farmi riconoscere ad ascoltare cosa insegnano i docentidi fotografia... torno tristissimo!».
Il digitale?
«Il fotogiornalismo continua, ci mancherebbe, ma non può essere fatto di una foto truccata. Il mio è stato un periodo di grande gioia, devo ammetterlo. Il segreto del mio lavoro è l'onestà. La macchina fotografica è uno strumento che può avere una violenza inaudita e quando vedo i premi dati a foto di volti imbrattati di sangue, mi chiedo se davvero serva questo».