Il dibattito
L’Oblio e la Memoria il destino della Shoah: parlano Godelli e Bruni
Dopo l’allarme lanciato da Liliana Segre. Godelli: ormai è sparito l’approccio storico. Bruni: le giornate sono controproducenti
Un lento e inesorabile scivolare nell’oblio con «una riga sui libri di storia». E poi nemmeno quella. È questo il destino agro che la senatrice a vita Liliana Segre pronostica per la Shoah a pochi giorni dal 27 gennaio, la Giornata della Memoria dedicata alle vittime dei lager nazisti. Un «pessimismo» (l’espressione è sua) che ha spaccato il dibattito spingendo tanti a interrogarsi sul significato della memoria e sugli eventuali errori «di trasmissione» compiuti in questi ultimi anni. Il Novecento, il secolo eterno, più che breve, sta infine tramontando nelle coscienze collettive e rischia di evaporare portandosi dietro tutti i suoi fasti, i suoi errori e i suoi orrori.
Dunque, che fare? Due analisi diverse, due opinioni diverse. Da un lato da Silvia Godelli, psicologa, progressista, già assessore al Mediterraneo della Regione Puglia, animatrice, negli anni passati, di moltissime iniziative dedicate alla Shoah, prima fra tutte il letterario «mese della memoria». Dall’altro, l’intellettuale conservatore Pierfranco Bruni, antropologo, scrittore e già assessore alla Cultura e vicepresidente della Provincia di Taranto. Si parte, appunto, dal «senso di superficialità» che sembra pervadere la ricorrenza. «Non parlerei di pessimismo, ma sono d’accordo con la Segre - argomenta Godelli -. Il problema è duplice: innanzitutto si è persa la percezione della Shoah come un unicum, dovuto sia alla volontà a freddo di eliminare un popolo, sia per il carattere scientifico-tecnologico con cui è stato condotto lo sterminio. E poi c’è il tema di Israele che, al di là delle sue contraddizione, è oggetto di una demonizzazione costante. Ecco, tutto questo autorizza lo scivolamento nell’oblio di cui parla la Segre». Proprio l’unicità della tragedia è ciò che Bruni invece contrasta capovolgendo il ragionamento: «Il punto è che non funzionano le “giornate” - spiega - nella misura in cui concentrano in uno spazio ridotto riflessioni che andrebbero sviluppate in tutto l’anno. E soprattutto creano contrapposizioni: il 27 gennaio la Shoah, il 10 febbraio le Foibe. Le parti si dividono e tutto si trasforma in una contesa ideologica, in strumentalizzazione politica. Un disastro». La soluzione, per lo scrittore tarantino, è invece unificare e diluire: «Tutte le tragedie vanno condannate e tutte toccano, per così dire, l’uomo internazionale - continua Bruni - . Non questi o quelli. Quindi liberiamoci dalle date fisse e iniziamo un percorso di riflessione largo, senza figli o figliastri, di ferma condanna. In un tempo, lo sottolineo, in cui guerre, diaspore e stermini non sono certo finiti. È necessario essere attuali ma non sempre attualmente politici».
Per Godelli, invece, la medicina è altrove: «Nella comprensione storica di quella unicità», innanzitutto. E, in generale, nell’approccio storico agli eventi del mondo. «È l’unico antidoto - riprende - all’ignoranza che produce mostri ma anche agli effetti dannosi dei social dove tutte le posizioni sono plausibili, da quelle negazioniste a quelle complottiste, mescolate nel calderone insieme alle altre». Non costituirebbe una pregiudiziale, invece, la scomparsa dei testimoni, ormai ridotti a un numero esiguo («è un elemento marginale») dalle cui parole, a volte, sarebbe anzi emerso un effetto controproducente: «L’inflazione delle microstorie - prosegue Godelli -, senza grande possibilità di generalizzazione e spesso raccontate da persone anziane, molto segnate, prossime alla morte. Finito il piagnisteo, resta solo il fastidio del piagnisteo. Soprattutto nei giovani, per età, innamorati della vita. Quello non funziona. Non si è esagerato, in questi anni, ma si è puntato troppo sul voler suscitare moti di orrore».
Dunque, tutto ritorna - deve ritornare - alla storia, allo studio della stessa e alla costruzione di un sapere oltre le enfatizzazioni e le retoriche partigiane. Un punto di convergenza con il pensiero di Bruni che, però, pone una questione nel merito: «Il problema è che i libri di storia raccontano il verosimile, non il vero. Lo dico chiaramente: la storia siamo noi, guardandola da sinistra. Questo è l’approccio. In realtà la storia non è né un voi né un noi, semplicemente “è”. E fortunatamente - riflette Bruni - la distanza dagli eventi ci permette di disporre finalmente di documenti certi, d’archivio che bisognerebbe avere l’onestà di registrare. I libri andrebbero riscritti, poi si può ragionare del resto».
Resta infine da capire quale significato porti con sé la Giornata della Memoria al tempo del Governo Meloni, cioè del primo esecutivo erede dell’esperienza post-fascista. Un tema stantìo, per molti, dirimente per altri. Nei fatti, Palazzo Chigi si sta spendendo moltissimo per onorare la ricorrenza, incassando gli applausi dell’Unione delle comunità ebraiche. Ma Godelli mette il freno: «Non mi sorprende questo atteggiamento della Meloni, ricordo bene Gianfranco Fini in Israele, allo Yad Vashem, con la kippa in testa. Il punto non è quello. Solidarizzano con le vittime, ed è facile, ma non parlano mai dei colpevoli perché dovrebbero fare i conti con la storia e con la propria in particolare. E non lo fanno. Mussolini è ancora quello che bonificava le paludi e faceva arrivare i treni in orario. Per questo - conclude - l’antisemitismo galoppa». Bruni, invece, chiude la faccenda senza margini di dubbio: «La destra italiana ha compiuto il suo percorso - attacca - e lo ha fatto integralmente. La destra che viviamo oggi non ha nulla a che vedere con il fascismo. Inutile insistere. Ci sono generazioni nuove e la formazione politica non guarda certo al 1938. Quindi basta così. Non essere progressisti non vuol dire essere fascisti». Le parole, in questo tempo, volano in libertà. Inflazionandosi e svuotandosi di significato. «Ogni qual volta - conclude Bruni - qualcuno da del fascista a Putin dimentica che Putin è stato comunista. Questo è quello che succede. Abbiamo parlato di errori. Bene, uno dei più ricorrenti è non riflettere sul significato delle parole».