Il ricordo
Cesare Cavalleri e la fede nella letteratura
La scomparsa del grande critico cattolico. Aveva 86 anni
Di Cesare Cavalleri, scomparso mercoledì a Milano, all’età di ottantasei anni, si rimaneva sempre colpiti dalla sua eleganza, mai esibita con insistenza eppure presente nei modi di vestire e di parlare, negli atteggiamenti dello sguardo e della parola, quasi ci fosse, da parte sua, una liturgia nell’affrontare ogni giorno il lavoro di giornalista e di critico, e questa liturgia transitasse anche attraverso una particolare maniera di essere dentro una precisa forma.
Una lunga fedeltà al mestiere di lettore lo ha tenuto incollato alla scrivania della rivista «Studi Cattolici», che poi coincideva con quella della casa editrice Ares, nata nel 1956 a Roma, ma trasferitasi a Milano una decina di anni dopo. Quella scrivania è stata una specie di cattedra universitaria, attraverso cui Cavalleri ha potuto esercitare il proprio magistero di persona incuriosita dalla scrittura di altri più che della propria, tant’è che nel 2019, quando fu pubblicato Sintomi di un contesto, l’unico libro di invenzione che porta il suo nome - una raccolta di versi, dalla lunghezza contenuta e uscita da Mimesis -, risultò evidente che si trattava di una corsia laterale del suo lavoro, una di quelle vocazioni tenute avvedutamente nascoste per non incorrere nel sospetto del narcisismo o, meglio forse, non per cadere nell’errore del mettersi al centro, sotto i riflettori, abbandonando il ruolo di spalla o di dirimpettaio, che era sempre stata la sua postazione.
Quella raccolta diceva già molto sull’epilogo degli ultimi giorni («Se me sono andato, me ne vado / è perché non ho smesso / neppure un momento di amarti»), ma lo diceva adottando un passo misterioso, un procedere enigmatico, com’era nello stile di chi pronunciava quelle parole, laconico e sorridente, arguto e ironico, pur senza abbandonarsi mai al compiacimento di sé. Qui sta la cifra umana e professionale di Cavalleri, il suo ragionare per allusioni, per parabole, in nome di una dote che era quella della discrezione e della misura. Per quanto aspri o pungenti, infatti, i giudizi che affidava a «Studi Cattolici» o alle pagine di «Avvenire» (cui collaborava fin dal primo numero, il 4 dicembre 1968), avevano il dono della chiarezza e tuttavia restavano nel cerchio di un signorile dissenso, evitando di diventare un graffio o quantomeno un marchio di bocciatura.
La natura degli uomini è piena di errori e ogni testo è perfettibile, sembrava suggerire il suo periodare che ritmava i suoi interventi che poi avrebbe radunato nei quattro volumi di Persone e parole (1989/2008), Editoriali di Studi Cattolici (2006), Letture (1998). Non era facile comprendere quale opera avesse diritto di accesso al suo personale canone letterario, perché era sempre troppo breve la distanza tra la critica come interrogazione etica e la frequentazione di una letteratura ad alto tasso di significazione.
E tuttavia una limpida coerenza ha accompagnato l’esercizio di lettore: quella di credere nella chiarezza e nella coerenza delle idee, come se le idee di cui si compongono i libri fossero frumento da passare al setaccio, da vagliare con precisione. Cavalleri questa operazione compiva quando sedeva alla scrivania e possiamo immaginare che la eseguisse come un rito sacerdotale, un cerimoniale che, complice probabilmente il fatto di essersi laureato all’Università Cattolica di Milano in una materia decisamente anomala per un futuro letterato come Statistica, andava svolto senza arbitri e senza titubanze.
Chiarezza e coerenza sono state due direttrici che hanno marcato la sua esperienza di uomo, prima ancora di letterato, alla luce di quel che è stata la sua testimonianza religiosa, a partire dalla scelta di aderire all’apostolato laico dell’Opus Dei compiuta poco oltre i vent’anni. Sarebbe un errore oggi distinguere il piano della letteratura da quello della fede in presenza di una vicenda come quella di Cesare Cavalleri, perché fede e letteratura sono manifestazioni di una dimensione che rimanda a un altrove, che sposta continuamente l’orizzonte a qualcosa che sta più in là, non si vede, ma c’è.
In tal senso può essere eloquente ciò che dichiara a Jacopo Guerriero nel libro-intervista Per viver meglio. Cattolicesimo, cultura, editoria, dato alle stampe nel 2018 per i tipi di La Scuola di Brescia. Interrogato sui rapporti con la Treviglio dov’era nato e da dove si era trasferito per andare a vivere a Milano, sollecitato sugli aspetti antropologici che la sua cultura spartiva con Ermanno Olmi e il suo L’albero degli zoccoli, Cavalleri prendeva una posizione netta e controcorrente: «I contadini sono restati pagani» dichiarava. «Il cristianesimo è un fatto urbano e questo per me è decisivo». Il mito della città come luogo lontano dal sacro veniva polverizzato in poche battute. Il cristianesimo è prima di tutto un’epifania di civiltà e il suo palcoscenico non poteva essere se non all’ombre delle ciminiere.