Letture
Il cinema è immortale ma la piattaforma...? In anteprima uno stralcio del libro di Daniele Vicari
Nel nuovo libro Einaudi il regista riflette sulla morte impossibile della settima arte
Esce il 18 ottobre per Einaudi il libro di Daniele Vicari, dal titolo «Il cinema, l’immortale». A Lecce, nell’ambito del Festival «Conversazioni sul futuro», si terrà sabato 15 ottobre la presentazione (ore 19,30, Officine Cantelmo, a dialogare con il regista, sceneggiatore e scrittore sarà Antonella Gaeta). Pubblichiamo in anteprima uno stralcio del libro.
Qualche anno fa, quando il festival di Cannes decise di non accettare in concorso film prodotti da Netflix, si capí che la filiera distributiva e l’esercizio in Francia aveva fatto forti pressioni sulle istituzioni perché ciò accadesse. Il problema che pongono gli esercenti e la necessità di avere «finestre» (window theatrical) che distanzino l’uscita in sala dalle altre uscite sui diversi dispositivi e supporti, compresa la programmazione dei film su piattaforma perché si ritiene che gli spettatori preferiscano aspettare qualche giorno e vedere i film a casa piuttosto che pagare il biglietto al cinema.
Nel sistema europeo, basato su finanziamenti pubblici, le finestre sono obbligatorie se non si vogliono perdere i vari benefici statali. La ragione principale per cui i film delle piattaforme non sono mai stati fino a ora presenti al festival di Cannes e proprio il lungo periodo di attesa che, per legge, deve passare dall’uscita cinematografica alla sua distribuzione in Tv e streaming. La Francia ha ridotto di recente queste finestre da 36 mesi a 15 e alcune piattaforme, con queste nuovi criteri, potrebbero essere presenti anche al festival.
Ma oltre ai problemi degli esercenti, che sono particolarmente gravi in Italia, dove si procede a ondate crescenti di cassa integrazione per i lavoratori dei cinema, aumentano le proteste degli autori.
L’appello a Bruxelles e arrivato da 12 registi europei, guidati dallo spagnolo Pedro Almodóvar e Luc Dardenne.
Come racconta la France Presse il gruppo, che comprende anche il rumeno Cristian Mungiu vorrebbe incontrare Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato interno, a cui ha inviato una lettera in cui chiede all’Europa di proteggere la sua cultura dai giganti digitali non europei. «L’America ha compreso cosa c’è in gioco dal punto di vista culturale ed economico quando ha imposto i suoi film su altri paesi con il Piano Marshall» dopo la seconda guerra mondiale, hanno detto i registi nel loro appello a Breton.
Qui c'è addirittura una posizione di politica internazionale, manca solo la polemica contro la Nato.
Già, perché non dobbiamo mai dimenticare che quelli del cinema, della Tv e dell’entertainment in generale sono settori strategici, e alcuni Paesi, come la Francia, lo hanno riconosciuto attraverso apposite leggi.
L’insofferenza verso le piattaforme si manifesta quindi anche in America, la patria dei colossi dello streaming, e per motivi strettamente industriali oltre che politici. Rispetto alla programmazione simultanea di film nelle sale e in streaming la regista di Wonder Woman 1984, che difficilmente può essere accusata di intellettualismo, Patty Jenkins, si scatena: «Non lo avete notato? Tutti i film che le piattaforme streaming stanno buttando fuori, mi dispiace dirlo, ma sembrano finti. Non ne sento parlare, non leggo nulla riguardo i nuovi film… non funziona come metodo per avere nuovi lavori leggendari e memorabili». La sua furia è legata al fatto che durante il periodo natalizio il suo film e stato distribuito su Hbo Max oltre che in sala. Può anche darsi che lei abbia un contratto basato sugli incassi in sala e ciò spiegherebbe in parte la polemica.
Ma Steven Spielberg, membro molto influente della Academy, l’aveva anticipata criticando la partecipazione agli Oscar dei film prodotti per lo streaming, provocando una discussione molto serrata: «Spielberg contro Netflix, Cuarón risponde. Steven Spielberg, uno dei piú importanti registi di sempre, non crede che Netflix debba correre per gli Oscar, ma Alfonso Cuarón non è d’accordo».
Altra posizione molto più politica e militante quella del regista italiano Davide Ferrario, che con due ampi articoli sul «Corriere della Sera» ha messo a punto una critica serrata alla cinematografia contemporanea e al cinema delle piattaforme.
«Nel cinema c’erano una volta il Neorealismo, la Nouvelle Vague, persino l’Onda Nera... E oggi? Niente. Solo qualche star (per esempio Tarantino) al quale si perdona tutto. È una marmellata insipida».
«Le sale tendono a presentarsi più che altro come bancomat dell’intrattenimento: effetto a lungo termine della diffusione dei multiplex e della programmazione incrociata oggi prevalente. E poi, naturalmente, c’è il convitato di pietra: le piattaforme, e più in generale il fenomeno della serialità».
«La vera grande conseguenza della digitalizzazione del consumo audiovisivo degli ultimi dieci anni e che il controllo della narrazione è stato sottratto al narratore e messo nelle mani dello spettatore singolo».
«Nell’epoca delle piattaforme streaming e della serialità, sono gli algoritmi e i format che determinano lo stile di un film. Con risultati paradossali. Chi conosce Noah Hawley? Eppure è il terzo fratello Coen.
L’Italia non fa eccezione a questo trend. Anzi, sono almeno 40 anni che nessun movimento reale emerge, nonostante miriadi di convegni e dibattiti».
Martin Scorsese ha gettato poi il peso della sua statura indiscussa sul dibattito politico culturale, andando ben al di là delle questioni industriali. Ha infatti preso carta e penna e attraverso un omaggio a Federico Fellini, ha scritto un articolo su Harper’s Bazaar molto duro: «Non possiamo fare affidamento sull’industry cosí com’è per prenderci cura del cinema: l’enfasi e sempre sulla parola “business” e il valore e sempre determinato dal denaro».
La critica alle piattaforme e feroce, secondo Scorsese attraverso lo streaming e le nuove pratiche dell’industria cinematografica hanno avuto un impatto negativo sul cinema.
Scorsese aggiunge: Flash-forward fino ai giorni nostri, l’arte del cinema viene sistematicamente svalutata, emarginata, sminuita, e ridotta al suo minimo comune denominatore, il content «contenuto» è diventato un termine commerciale per tutte le immagini in movimento: un film di David Lean, un video di gatti, uno spot del Super Bowl, un sequel di supereroi, un episodio di una serie. È stato collegato, ovviamente, non all’esperienza in sala ma alla visione domestica, sulle piattaforme streaming che hanno ormai superato l’andare al cinema, proprio come Amazon ha superato i negozi fisici. Da un lato, questo è stato un bene per i registi, me compreso. D’altra parte, ha creato una situazione in cui tutto allo spettatore viene presentato su un terreno di gioco uniforme, che suona democratico, ma non lo è.