Il racconto

Salire sull’autobus dei ricordi

Anna Maria Semeraro

Un giro per Bari è anche un giro nella memoria e nel vissuto che ritorna

Era una bella giornata di fine gennaio. Il sole risplendeva in un cielo punteggiato qua e là di nuvole bianche, ma l’aria era rigida.
Anna era uscita di buon’ora dal portone di casa. Aveva le mani ghiacciate, come sempre, e ancora una volta aveva dimenticato i guanti. Le piaceva tanto camminare, ma quella mattina aveva deciso di prendere l’autobus per andare in centro: faceva troppo freddo e, per la prima volta, benedisse la mascherina, che le proteggeva il viso dal vento gelido di tramontana. Raggiunse la fermata della navetta. Aspettò pochi minuti. Ecco, la vide spuntare in lontananza dal fondo del viale. L’autobus si avvicinò rapidamente e si arrestò con stridio di freni.
Anna salì dalla porta anteriore - com’è prescritto adesso - obliterò il biglietto e cercò un posto a sedere. Non c’erano molti passeggeri a bordo:
la pandemia faceva paura. La gente preferiva spostarsi con i mezzi propri e solo se era proprio necessario. Si sedette sul lato destro al posto più vicino alla porta centrale: sarebbe stata più agevole poi la discesa.
Anna si accomodò e poggiò la testa sullo schienale. Il pensiero volò quasi automaticamente a quando, da bambina, prendeva la corriera ogni mattina alle h. 7,30 per andare a scuola. Allora abitava con la sua famiglia a Mungivacca. L’autobus spuntava dal fondo dello stradone e arrivava in pochi secondi nella piazzetta, che si apriva al centro delle case popolari. Anna e sua sorella frequentavano l’Istituto parificato Santa Rosa. Il papà le accompagnava fino all’entrata di piazza Balenzano, poi si recava alla Caserma Picca, dove prestava servizio come Maresciallo Maggiore dell’Esercito.
L’autobus di linea sostava davanti a quello che tutti chiamavano “lo Spaccio”, un negozio di alimentari, che vendeva anche altri generi di prima necessità. Poi girava e tornava, per lo stesso stradone, in via Amendola, andava alla stazione della ferrovia del Sud - Est, dove c’era l’oleificio Sapio, ripercorreva via Amendola fino all’extramurale G. Capruzzi, passava dal sottovia S.Antonio e, per via De Giosa e corso Cavour, raggiungeva il capolinea davanti al teatro Petruzzelli.
Anna si accorse, con un certo imbarazzo, di avere il volto sorridente - ripensare all’infanzia le procurava sempre un’indicibile tenerezza - e il suo sguardo, perso nel vuoto, si era posato inavvertitamente su di un signore attempato, che la stava fissando con un lampo di malizia negli occhi. Anna si ricompose, si rimise sul naso la mascherina, che aveva abbassato a coprire soltanto la bocca, per respirare meglio, e assunse l’espressione severa, che le era abituale. Si guardò intorno: non saliva su un autobus urbano da una decina d’anni. Da quando era andata in pensione. Notò che dietro la postazione dell’autista non c’era più la scritta “NON PARLARE AL CONDUCENTE”. E già, ormai era superfluo. Oggi ognuno parla o chatta col proprio cellulare.
Adesso vicino al conduttore c’è una macchinetta, dove ogni passeggero introduce il biglietto da obliterare.
Com’era più bella, più umana la presenza del bigliettaio, seduto al suo deschetto proprio accanto alla porta posteriore, che un tempo costituiva l’entrata, quasi ad accogliere e dare il benvenuto - insieme col biglietto - ad ogni passeggero!
Le tornò alla mente l’immagine vivida del bigliettaio che, quando lei era bambina, prestava servizio sulla corriera Mungivacca - Bari. Era simpaticissimo: grasso, di mezz’età, con sopracciglia folte e baffetti scuri. Era molto comunicativo, sempre di buon umore, con una risata accattivante, in tutto simile ad Aldo Fabrizzi, tranne che per un particolare: lui non parlava in romanesco, ma in un colorito dialetto barese. Le era rimasta chiara nella memoria una sua battuta, che ancora adesso suscitava in lei l’ilarità. Succedeva soprattutto la mattina del lunedì. Quando qualche passeggero saliva lentamente e svogliatamente sull’autobus, il bigliettaio, che conosceva un po’ tutti , non esitava ad incitarlo bonariamente: “..E ssale, sale, meh! Frate mi, ce si mangiate, cequère?”
L’autobus d’una volta trasportava un’umanità calda, spontanea, forse un po’ confusionaria e talvolta sciatta e impulsiva, ma più conviviale e solidale. I pendolari che si ritrovavano ogni giorno, sempre alla stessa ora sulla medesima corriera, si conoscevano fra loro e familiarizzavano. L’autobus diventava una sorta di circolo itinerante. L’autista e il bigliettaio, con le loro divise grigio-azzurre, non erano soltanto pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, ma compagni di viaggio, quasi degli amici. Quante volte il conducente , su premurosa segnalazione del collega, aspettava pazientemente un ritardatario in corsa affannosa verso la fermata!

E la ritardataria spesso era Anna, che appena salita a bordo, ancora col fiatone, rivolgeva un sincero, sonoro “grazie” al conduttore. All’ora di punta, quando gli studenti e molti lavoratori, soprattutto impiegati e insegnanti, tornavano a casa per il pranzo, l’autobus veniva preso d’assalto. Si era così pigiati, che le porte a soffietto dell’entrata si chiudevano a fatica. E a nulla serviva l’invito energico del bigliettaio:”Andate avanti, avanti c’è posto!” Soltanto quando si era tutti stipati, come sardine in scatola, e le persone a grappolo viaggiavano a porte aperte sul predellino della salita, il bigliettaio gridava al guidatore: “Completo!! Vai, Giuànne, vai! Non te sì fermanne cchiù!”
E chi restava a terra aspettava fiducioso il “BIS”, cioè una corsa suppletiva che sarebbe arrivata di lì a poco, forse.
Nell’autobus si potevano fare incontri e talvolta nascevano amicizie. Ad Anna tornò in mente l’immagine dolce di una vecchina dai capelli bianchi, raccolti sulla nuca in una piccola crocchia. Era una signora delicata, gentile e raffinata. Viaggiava sempre da sola. I genitori avevano insegnato ad Anna a cedere sempre il posto alle signore anziane; così era divenuta per lei una bella consuetudine alzarsi e far accomodare la signora, che le riservava ogni volta larghi sorrisi e piccoli buffetti sulle guance. Non ricordava il suo nome, o forse non l’aveva mai saputo. Invece aveva nitido il ricordo di un suo dono.
Si era in primavera, in prossimità delle feste di Pasqua. Quel giorno la piccola Anna era in autobus col suo papà e la signora era già seduta su uno dei sedili del lato destro della corriera. Quando la vecchina vide la bambina, le sorrise e le fece cenno di avvicinarsi. Aveva fra le mani un pacchetto, lo aprì e ne trasse una graziosa gallina gialla di galalite. Con una leggera pressione la gallinella si accovacciava, allargava le alucce e deponeva un ovetto bianco. Anna era emozionata, confusa: non aveva mai ricevuto un regalo da persone che non fossero i suoi genitori. Arrossì, prese il pacchetto che la signora le offriva e con un fil di voce mormorò: “Grazie, signora!” La piccola era così contenta, che avrebbe voluto buttarle le braccia al collo e schioccarle un bacione sul viso sorridente, ma era troppo timida. Anche suo padre ringraziò la signora per la sua gentilezza; era visibilmente soddisfatto e compiaciuto di avere una figliola così ben educata.
Immersa in questi ricordi, Anna non si era accorta che la navetta aveva raggiunto il capolinea. Tutti i passeggeri erano scesi. L’autista aveva lasciato il posto di guida e si stava dirigendo verso il caffè più vicino. Ancora una volta ripensò al tempo della sua infanzia. Allora il bigliettaio e il conducente scendevano dall’autobus per fumarsi una sigaretta e per fare due chiacchiere in tutta tranquillità; una breve pausa di riposo. Ed era lì, in Corso Cavour, a pochi metri dal teatro Petruzzelli che, sulla corriera in sosta, in attesa dell’orario d’inizio della corsa successiva, saliva un personaggio molto caro ai bambini: il venditore ambulante di caramelle.
Era un uomo non più giovane, alto e magro. Indossava sempre un cappello beige con visiera, forse per ripararsi dal sole o per nascondere una calvizie precoce. Portava tutta la sua mercanzia, ben ordinata in una cassetta di legno rettangolare, sospesa al collo con una robusta striscia di cuoio. Verosimilmente il peso della merce, ma anche il suo atteggiamento ossequioso avevano contribuito a incurvare la sua schiena. Si avvicinava ai passeggeri, prediligendo adulti con bambini. Dopo un primo giro, per incitare i potenziali clienti ad acquistare le sue leccornie, chiedeva: “Me ne vado?” E faceva un altro giro. “Me ne vado?” ripeteva, sperando che un altro passeggero, appena salito sull’autobus, fosse un amatore di giuggiole, di caramelle Rossana o di liquirizie e si affrettasse ad appagare la sua golosità. “Me ne vado?” Il tono diveniva via via più pressante, “Me ne vado? Me ne vado?” e vagamente minaccioso e ricattatorio. Solo quando il bigliettaio tornava al suo deschetto e l’autista si risedeva al posto di guida e riaccendeva il motore, lui andava via per davvero, scendendo dalla porta centrale.
Anna era scesa dalla navetta in sosta al capolinea e ora indugiava sul marciapiede, assaporando il dolce tepore del sole. Le era venuto imperioso il desiderio di rivedere i luoghi della sua infanzia. In fondo aveva la mattinata libera e, anziché passeggiare per le vie del centro, poteva recarsi a … Si rivolse all’autista, che era tornato per riprendere servizio: “Scusi, mi sa dire dove ferma l’autobus per Mungivacca?”
“Guardi, signora, deve prendere il 21. La fermata più vicina è a piazza Luigi di Savoia, davanti alla libreria San Paolo, ma se lo vuol prendere dal capolinea, deve recarsi in piazza Aldo Moro, la piazza antistante la Stazione Centrale.”
“Sì, preferirei andare al capolinea. Là sarà più facile trovare un posto a sedere. La ringrazio! Arrivederla!”
E Anna si avviò con passo deciso verso la stazione.

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