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Il racconto
Teresa Petruzzelli
03 Novembre 2020
Da noi l’estate finisce a novembre, sappiamo bene come va a finire, caldo senza fine, con i sacchetti dei maglioni ancora sugli scaffali più alti dell’armadio e mezzo gelato dell’estate ancora nel freezer.
Enza esce di casa per andare al lavoro, fa le pulizie negli uffici quando tutti sono andati via , indossa una divisa blu, guanti di lattice e pulisce le stanze, le scrivanie, i pavimenti , i monitor. Il suo non è un lavoro fisso, lavora part time per una cooperativa. Spazza il pavimenti in un silenzio tombale, solo il fruscìo della scopa e il rumore dello straccio strizzato. Il rumore più forte, lo sciabordio dell’acqua quando nel secchio ci immerge il mocho per lavare i pavimenti.
Le ronzano nella testa canzoni, piccoli refrain di pubblicità di quando era bambina, o profumi. Quello sentito dai tester nella profumeria sotto casa, un profumo maschile ma molto fruttato. Finito di lavare, in attesa che finiscano le sei ore e quaranta, Enza siede sudata ad una delle scrivanie, facendo attenzione a non lasciare impronte con le pantofole di plastica
Sulle scrivanie non c’è molto da vedere, chi ci lavora nasconde tutto nei cassetti che chiude a chiave, c’è solo l’odore al muschio bianco del detergente all’ammoniaca che lei usa passando lo straccio umido su un monitor in cui si specchia. Rumori di chiavi, passi veloci, non si alza perché non saprebbe cosa fare, visto che ha la scopa e lo straccio lontani.
Resta lì, immobile, con lo sguardo basso. Entra un uomo, con la mascherina chirurgica fin sul naso. Ah la mascherina! Di solito la dimentica ma la tiene appallottolata in una tasca del camice. La indossa anche lei coprendo il naso, lui entra nel piccolo ufficio, la trova seduta, ma non le dice nulla. Apre uno dei cassetti mentre lei sposta una gamba. Si abbassa di qualche centimetro e i capelli di Enza gli sfiorano gli occhi, le dita della mano che tengono le chiavi, prese dal fondo del cassetto, con uno scatto si aprono e cadono, rimanendo penzoloni nell’asola dell’ultimo bottone.
Restano immobili. Enza prende le chiavi in bilico sull’asola. Il camice si apre sul petto. Ha una pelle bianchissima con un piccolo neo perfettamente tondo e nero, in alto sul seno destro. Prendendo le chiavi dalla scollatura si abbassa e il suo collo lungo si mostra come una chiglia di una barca in un mare in tempesta. I capelli sono castani, folti, lucidi tenuti da un pinzone rosso, solleva la testa lentamente, lentamente, lentamente fino a portarla indietro e a guardarlo negli occhi, mentre il collo e la parte alta del petto sono in tensione, il bottone sembra cedere e uscire dall’asola.
«Mi scusi, non la volevo disturbare, ma ho dimenticato le chiavi»
Enza si alza, lo guarda negli occhi. Perché chiede scusa, è impazzito, io sono la donna delle pulizie, pensa. Lui ha gli occhi verdi, un verde incomprensibile, quel verde indeciso tra il giallo e il marrone e tante venature di un verde più scuro, come quello delle bottiglie. I capelli sono scuri e non ne ha nemmeno uno bianco, anche se dagli atteggiamenti non sembra tanto giovane.
Lui la fissa, non riesce a dire altro, abbagliato dagli occhi di lei azzurri, grandi, fatti di una sola luce con le sopracciglia perfettamente disegnate e la fronte spaziosa. Lui si solleva la mascherina fin sul naso, saluta e corre via. Enza si toglie la mascherina e corre a vestirsi. È finito il suo turno di lavoro.
Lascia il secchio e il mocho nello stanzino, entra nell’ufficio dove ha lasciato il giubbotto di jeans e la borsa, si veste, volta lo sguardo. Sulla scrivania un mazzo di chiavi.
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