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Il racconto
Rita Lopez
01 Novembre 2020
Quella notte non aveva chiuso occhio. A dire il vero ultimamente le capitava spesso di svegliarsi prima ancora dell’alba e di non riuscire più a dormire. Ma quella notte la passò sdraiata sul letto, senza neanche infilarsi sotto le coperte, a guardare il soffitto. Maria voleva farla finita. Era stanca. Spossata. Non era rimasto un solo motivo al mondo per andare avanti e il mondo intero non si sarebbe neanche accorto della sua assenza. Doveva solo trovare il coraggio. Perché ci vuole coraggio per morire. Non è forse così? La gente parla di debolezza. Di mal di vivere. Non sa, la gente, la forza che richiede il rifiuto della vita. Non è forse così? Deve essere così.
Una perdente: ecco cos’era. Il fallimento era stata la costante della sua vita. Aveva fallito come figlia. Aveva fallito come moglie. Aveva fallito come madre. Ecco! Era arrivata a una decisione. L’unica decisione possibile: non voleva più vivere come una perdente. Maria si attaccò a quest’unica certezza come fa un naufrago con un relitto. Cosa le era rimasto, adesso, a cinquant’anni passati, di tutti quegli anni vissuti? Nient’altro che un letto vuoto, freddo, troppo grande per riscaldarla. Nient’altro che una casa silenziosa, in cui l’assenza di rumori, l’assenza di voci, la facevano sprofondare in una quiete surreale. Nient’altro che l’angoscia di ritrovarsi ogni giorno, ancora, irrimediabilmente, davanti a un altro giorno. Un anonimo, scialbo, ennesimo giorno di una vita che ormai aveva perso ogni sua attrattiva. Una vita diventata impossibile da vivere, da sopportare. Una non-vita insomma.
Avvertì un brivido di freddo. Si accorse che aveva lasciato la finestra aperta. Si alzò dal letto e andò a chiuderla. Stava albeggiando. Il cielo era limpido e si preannunciava una giornata di sole.
Maria si vide riflessa sul vetro della finestra.
«Non ce la fai» pensò. «Sei talmente mediocre che non ce la fai».
Provò disgusto per la sua faccia. E un rigurgito di rabbia per la sua debolezza.
«Invece sì» disse ad alta voce, sfidandosi, disprezzandosi, odiandosi.
Uscì dalla stanza da letto e spalancò la porta di casa. Salì i gradini delle scale senza fare il minimo rumore. Non aveva messo le scarpe. Aveva solo i calzini scuri di cotone. Raggiunse il sottotetto condominiale. Puzzava di muffa e pane rancido. La vecchia porta di legno cigolò, quando l’aprì. Salì senza difficoltà sul tetto, camminando piano sulle tegole rosse. Seguì la leggera pendenza, poggiando un piede dietro l’altro, come un automa, senza pensare a nulla. La testa inconsistente come un tappo di sughero. Non si accorse nemmeno dell’allodola che la stava osservando, posata proprio sulla cima della canna fumaria. Non si accorse nemmeno che si era alzato il sole.
Il signor Moretti, che abitava di fronte, era uscito dal portone di casa, come ogni mattina, per andare a lavorare. Vide Maria con i suoi capelli rosso fuoco, dritta come un soldato, pericolosamente vicina al bordo del tetto. Ebbe un sussulto. Rientrò di corsa risalendo i gradini due per volta e si attaccò al telefono.
Maria non seppe mai per quanto tempo rimase così, in bilico, immobile, sulle tegole inclinate del tetto. Forse per qualche minuto. Forse per un tempo interminabile. Non seppe mai se gli occhi le si erano inumiditi per la frescura pungente del mattino o per un improvviso senso di pietà verso se stessa.
Fissava la strada di sotto. Tra poco sarebbe tutto finito.
Non si accorse neanche del carabiniere che era sgusciato silenzioso sul tetto, alle sue spalle. Dei suoi passi felpati. Del martellare impazzito del suo cuore: tu-tum, tu-tum, tu-tum. Si sentì soltanto avvolgere all’improvviso da due braccia forti. Sobbalzò per lo spavento, ma non urlò. Fu come svegliarsi di colpo. Si accorse che per strada era ferma una volante e c’era un gruppo di persone a testa in su. Erano lì per lei. E poi quelle braccia. Quelle braccia che continuavano a stringerla con forza, con tenacia, ma non con cattiveria. Anzi, tutt’altro. Erano braccia accoglienti, confortevoli. Braccia in cui lasciarsi cullare per sempre. L’uomo, in effetti, la strinse ancora di più a sé e prese a cullarla, come si fa con un bambino piccolo.
Poi si abbassò piano sul tetto, facendola sedere accanto. Maria lo guardò. L’uomo aveva gli occhi scuri e il volto semicoperto dalla mascherina. Già, la mascherina. La pandemia. Già. Le precauzioni. Il distanziamento sociale. Eppure quell’uomo in divisa non smetteva di abbracciarla e di accarezzarle la schiena. Maria posò la testa sul suo petto, chiuse gli occhi e pianse. Si rannicchiò sul suo corpo. Aveva le gambe e le braccia infreddolite, ma il calore delle lacrime sulla faccia e delle braccia dell’uomo che la stringevano, la riscaldò fin dentro le ossa. Le sciolse il petto dal nodo aggrovigliato e convulso dei singhiozzi.
In quell’abbraccio ritrovò tutti gli abbracci ricevuti e tutti gli abbracci dati. Quelli solo immaginati. Quelli desiderati e mai accaduti. Quelli ancora da dare, distanti anni luce. Quelli di quando era stata figlia. Di quando era stata moglie. Di quando era stata madre. Di quando sarebbe diventata nonna. Quanto silenzio c’è in un abbraccio! E quanto si riesce a dire con un abbraccio!
L’uomo si alzò. Le porse la mano e l’aiutò a sollevarsi.
Il capannello di persone che si era radunato per strada, alla spicciolata, si disperse.
L’allodola, quando tutto si fu calmato, tornò a posarsi sulla cima della canna fumaria.
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