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Musica
Ugo Sbisà
01 Febbraio 2021
I recenti risultati del referendum Top Jazz, hanno inserito il suo No Land’s nella top ten dei dischi italiani dell’anno (primo posto Roberto Ottaviano, ndr) e non c’è dubbio che sia una bella soddisfazione per il contrabbassista e compositore salentino Matteo Bortone, che già nel 2015 si era imposto nella stessa competizione, conquistando il primo posto nella categoria riservata al miglior nuovo talento. Si può dire infatti che con questo riconoscimento il trentanovenne jazzman idruntino stia confermando il proprio talento attraverso un percorso di crescita artistica per nulla timorosa di confrontarsi con la novità, sperimentando all’occorrenza anche delle soluzioni espressive proiettate in dimensioni sonore che attendono ancora di essere esplorate del tutto.
Ecco allora che No Land’s, edito dalla Auand del biscegliese Marco Valente, s’impone innanzitutto per un titolo «a progetto» che sembra quasi voler indicare le rotte musicali dell’autore, dove il «senza terra» diventa prossimo della «terra di nessuno», a voler significare che riconoscersi in determinate radici non significa doverne diventare schiavi e che la miglior condizione per creare senza vincoli è quella di conoscere il mondo dei suoni, abitandolo però da apolidi, per riuscire a praticarne ogni linguaggio, plasmandolo a proprio piacimento senza alcun condizionamento.
La formazione che si ascolta nell’album è un sestetto franco-italiano (Bortone si è formato al Conservatorio di Parigi) nel quale suonano insieme col Nostro i sassofonisti Antonin-Tri Hoang e Julienne Pontvianne, il chitarrista Francesco Diodati, il pianista Yannick Lestra e il batterista Ariel Tessier, mentre la musica è il frutto di un progetto realizzato su commissione nel 2019.
Il viaggio sonoro – quasi tutto a firma di Bortone - prende le mosse da Delta, con le sue oscillazioni tra minimalismo e drone music, per poi approdare al modale post fusion di Dougle Jones, che viene attraversato dalle sonorità allucinate della chitarra di Diodati. Future/Past è una composizione decisamente coerente col titolo e dipinge un affresco sonoro che coniuga il futuribile con i linguaggi del cosiddetto post moderno, facendo impiego di sonorità elettroniche ridondanti.
Il lento In aliore loco, firmato dal sassofonista Pontvianne, fa impiego di sonorità cupe (prima clarinetto e contrabbasso con l’archetto, poi percussioni e pianoforte che intervengono «per addizione») e s’inoltra sul terreno di uno sperimentalismo dal sapore novecentesco che coniuga tanto il jazz quanto i linguaggi della musica europea. Dumps utilizza una melodia lenta, quasi un tema da «processione del terzo millennio», che sembra affrescare l’utopia di una rinascita dalle tenebre, mentre l’approccio minimalista di Screens e il suo impiego di effetti riconducono l’ascoltatore alle atmosfere dell’iniziale Delta.
Shapeshifter viene costruito su un tessuto polifonico che sembra voler vagheggiare l’idea di un moderno camerismo e fa impiego di un’ampia varietà di episodi, nel cui ambito gli assoli emergono a mo’ di isole sonore. A Spectral Fairytale parte da un tema allucinato che si dipana in crescendo per approdare a una sezione centrale di stampo elettro free, mentre rivolge invece idealmente lo sguardo a un contesto più jazzistico Ichi Go Ichi E, nel quale è possibile cogliere echi di Parker e Coleman e aromi della M-Base che conducono a episodi dal taglio più dichiaratamente melodico; belli gli interventi solistici del sax di Hoang e di Lestra al fender. L’approdo di Volverse Lugar, con Bortone in primo piano anche alla voce, proietta infine in una dimensione quasi metafisica in cui il canto ispirato sembra voler ricordare che, come nella Itaca di Kavafis, la vera ricchezza di ogni viaggio è la possibilità di fare ritorno anche dai luoghi più lontani, con nuove consapevolezze interiori.
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