La scoperta
Bari, i segreti del blu oltremare ricreati in laboratorio a distanza di tre secoli
Le indagini condotte al microscopio elettronico hanno confermato l’ipotesi che fosse un pigmento non naturale. Lo studio dell'Università di Bari
BARI - «Una serie di indagini al microscopio elettronico hanno confermato l’ipotesi che fosse un pigmento non naturale». Il prof. Gioacchino Tempesta, associato di Georisorse minerarie e applicazioni mineralogico-petrografiche per l’ambiente e i beni culturali del Dipartimento di Scienze della Terra e Geoambientali dell’Università di Bari, spiega il senso di una ricerca che applica la mineralogia alla storia della scienza per decodificare misteri che ci ha lasciato il passato. Lo studio sul blu artificiale creato dal principe Raimondo di Sangro, attesta per la prima volta che fu sua la ricetta capace di ricreare la pietra naturale, una scoperta che porta il primato in Italia.
Come avete capito che quel blu era artificiale?
«L’oltremare si ottiene dal lapislazzuli, ma una roccia, per quanto possa essere purificata, quando viene ridotta in polvere, continua a conservare microframmenti di vari minerali che restano nel pigmento. Quando si fanno indagini sulle opere d’arte, non solo si ha la conferma che si tratta di un pigmento naturale ma si può capire se la roccia arriva dall’Afghanistan, dalla Russia o dal Cile. Nello studio, abbiamo trovato solo il minerale della lazurite e non calcite o pirite e con una composizione che non esiste in natura, dove si forma dalla metamorfizzazione di una roccia carbonatica, che cioè ha il calcio. Nel composto esaminato è assente. Poi ci sono altri indizi, come l’abbondanza di zolfo».
Ma quale ricetta ha usato il principe di Sangro?
«Non la conosciamo. Sappiamo che ha ricreato la lazurite naturale ma non ancora come ha fatto. Per farla occorre miscelare caolino con zolfo e nitrato a una certa temperatura, come poi è stato fatto nel 1828 dal chimico francese Guimet. Ma ai tempi di Raimondo non si conoscevano gli elementi chimici che compongono la lazurite«.
Con la sua misteriosa formula ha precorso i tempi o ha creato il blu per caso?
«Probabilmente. Ma è un’ipotesi, qualcuno empiricamente aveva trovato una ricetta (simile a quella del 1828 con zolfo, silicati da argille e cenere) che si tramandava segretamente. Goethe scrisse nel 1787 che l’aveva vista a Palermo. Forse Raimondo l’aveva imparata dai Gesuiti e poi l’aveva utilizzata, forse modificata, nell’obiettivo di ricreare la natura per questo il suo laboratorio si chiamava la Fenice: voleva far rinascere le cose».
È possibile riprodurla?
«Ricrearla non è difficile ma non conosciamo ancora i tempi, le proporzioni, le temperature che usò. Forse è nata casualmente in una fornace o per tentativi, esattamente come si fa ancora oggi nei laboratori che creano gemme e pietre preziose artificiali: anche ora le formule restano un segreto!»
Qual è l’importanza scientifica?
«Il punto è che in quel momento storico non c’erano conoscenze scientifiche. Il primo studio sulla composizione del lapislazzuli arriva 20 anni dopo la sua morte avvenuta nel 1771. La storia mette in evidenza come la curiosità di questi nobili alchimisti, che al tempo erano concentrati sul creare meraviglia, aveva raggiunto livelli molto alti. Noi sappiamo che lui aveva prodotto altre gemme, ma non ne abbiamo testimonianza. L’importanza di questo studio è che c’è un collegamento tra i testi, le fonti storiche e il dato materico, e questo consente di certificare i suoi risultati, al di là delle leggende su di lui o i tanti racconti sulla pietra filosofale o sulla creazione dell’oro».
E l’importanza della vostra scoperta?
«Dà all’Italia il primato internazionale della sintesi del pigmento, che finora era dei francesi. I maestri d’arte italiani nel ‘700 erano ancora molto bravi. Ma è stata importante anche la collaborazione interdisciplinare. Con il nostro riscontro petrografico, i colleghi di storia della scienza che avevano le carte, sono riusciti a chiudere il cerchio».
È previsto un seguito?
«Nel corso delle indagini abbiamo rilevato l’insolito uso della fluorite come materiale scultoreo, in particolare per i cuscini delle statue dei santi Oderisio e Rosalia. Non è un caso che Raimondo abbia utilizzato quel materiale perché ha delle caratteristiche particolari e un significato storico e spirituale. Illuminato in notturna con luce Uva diventa blu, ha una fluorescenza particolare. Non abbiamo testimonianze però è strano: tutto è in marmo tranne questo cuscino bianco-marroncino che sembra volare».