Litaliano è la lingua di Papa Francesco
di Onofrio Pagone
Il siparietto è gustoso. Il Papa è nel santuario di Solmoe, tappa importante del suo viaggio in Corea, e dal pulpito si rivolge ai giovani parlando in inglese. La messa era stata celebrata in latino e in coreano, ma quel discorso è stato scritto in inglese.
Francesco legge e infiamma il cuore di quei giovani convenuti a migliaia per l’incontro col pontefice. Verso la fine della prima parte del testo, il Papa si ferma e, in inglese, chiede ai giovani: «Siete stanchi?». Domanda retorica, giusto per prendere fiato e smorzare la tensione emotiva del momento. Non contento del primo applauso di consenso, Francesco rincara la dose.
«Allora vado a casa?...». Altro interrogativo retorico, perché i giovani tutto vogliono tranne che il Papa vada via. Quindi il colpo di scena, uno di quelli che demoliscono il protocollo e rendono affabile la figura di questo pontefice: «Posso dire altre cose spontaneamente - esclama Francesco, sempre in inglese - però lo faccio in italiano». Chiede dunque soccorso a un interprete perché traduca all’impronta e continua a braccio: in italiano.
Ovviamente le immagini di questo momento fanno il giro del mondo attraverso i siti internet e sono tra le più cliccate tra le notizie del giorno.
La scelta del pontefice ha molteplici valenze e valori indotti. Anzitutto lascia riflettere sulla distinzione tra medium e messaggio, perché in questo caso la lingua del Papa, cioé il mezzo della comunicazione, ha rischiato di coprire l’importanza della comunicazione stessa, cioé appunto il messaggio. Il Papa non se ne è curato perché la sua opzione ha una motivazione pratica e pastorale insieme: Bergoglio, pur argentino e dunque di lingua spagnola, ha sangue italiano e ha studiato a Roma. Ha perciò una particolare dimestichezza con la nostra lingua che, da quando è salito al soglio di Pietro, utilizza normalmente perché sin dal primo momento ha voluto sottolineare che il papa è il vescovo di Roma: la capitale è la sua diocesi, prima ancora che sede dello Stato vaticano ed epicentro mondiale della cristianità.
Questo messaggio peraltro è stato ben compreso in giro per il mondo. Proprio le immagini del viaggio in Corea lo testimoniano: molti dei cartelli e degli striscioni di benvenuto sono scritti in italiano. I fedeli si rivolgono al Papa in italiano, non in inglese o in spagnolo. Il latino è, per tradizione, la lingua della Chiesa; l’italiano è la lingua di papa Francesco. In latino annunciò le proprie dimissioni papa Ratzinger; in italiano papa Bergoglio continua a predicare ai giovani di non farsi scippare la speranza.
Il valore indotto di questa traccia pastorale riguarda noialtri che in italiano parliamo e scriviamo, talvolta persino offendendone la grammatica: il Papa diventa (involontariamente) testimonial della nostra lingua.
Questo pontefice ha contribuito ad una consistente ripresa dei pellegrinaggi a Roma, e dunque dei viaggi in Italia, terra d’arte e di cultura in senso lato. Francesco, cioé il papa che è riuscito più volte a far gremire piazza San Pietro e via della Conciliazione da oltre 200mila persone, è il pontefice che muove le folle: ieri ha celebrato la messa davanti a un milione di persone. Papa Wojtyla arrivò a giocare al karaoke con i giovani (lo fece durante la sua visita a Lecce dopo l’inaugurazione del nuovo seminario); papa Bergoglio, pur mosso da altre motivazioni, sta promuovendo l’idioma nazionale e tutto ciò che ne consegue.
Tutto questo stride con la scarsa considerazione che noi italiani abbiamo della nostra lingua e, in generale, del nostro patrimonio culturale. Anche i dizionari più blasonati hanno dovuto aggiornare la lingua italiana con una serie di neologismi mutuati soprattutto dall’inglese, perché ormai utilizziamo nel linguaggio corrente idiomi a noi estranei. Un esempio: le cronache del viaggio del Papa in Corea raccontano dei selfie (non gli autoscatto) che i giovani hanno voluto fare con lui, utilizzando gli smartphone (non i telefonini) per poi inviarli ai propri amici via sms (cioé short message service, insomma i messaggini!) o per email (cioé posta elettronica)...
Noi italiani in fatto linguistico siamo ormai divisi in fazioni: da una parte quelli che parlano «bene», e cioé sono capaci di infarcire il proprio discorso di termini stranieri, mutuati dall’inglese ma non solo (si pensi alla parola spagnola movida, di uso comune per parlare di movimento finalizzato al divertimento). Ci sono poi quelli che parlano «benino», e cioé si limitano a non sbagliare la grammatica; infine quelli che parlano «male» l’italiano, perché lo arricchiscono di espressioni gergali o dialettali. Persino gli ambulanti neri che affollano le nostre spiagge in questi giorni hanno capito questa distinzione e propongono le loro mercanzie nello slang più appropriato: vu’ compra’, napoletano italianizzato ormai, ma - sul litorale barese - anche vu’ accattà...
Papa Francesco parla in italiano, a braccio, quando vuole essere meno formale e vuole parlare al cuore. Noi italiani, invece, è come se ci vergognassimo di essere spontanei e di valorizzare ciò che abbiamo: una lingua che è una tavolozza.
Il siparietto è gustoso. Il Papa è nel santuario di Solmoe, tappa importante del suo viaggio in Corea, e dal pulpito si rivolge ai giovani parlando in inglese. La messa era stata celebrata in latino e in coreano, ma quel discorso è stato scritto in inglese.
Francesco legge e infiamma il cuore di quei giovani convenuti a migliaia per l’incontro col pontefice. Verso la fine della prima parte del testo, il Papa si ferma e, in inglese, chiede ai giovani: «Siete stanchi?». Domanda retorica, giusto per prendere fiato e smorzare la tensione emotiva del momento. Non contento del primo applauso di consenso, Francesco rincara la dose.
«Allora vado a casa?...». Altro interrogativo retorico, perché i giovani tutto vogliono tranne che il Papa vada via. Quindi il colpo di scena, uno di quelli che demoliscono il protocollo e rendono affabile la figura di questo pontefice: «Posso dire altre cose spontaneamente - esclama Francesco, sempre in inglese - però lo faccio in italiano». Chiede dunque soccorso a un interprete perché traduca all’impronta e continua a braccio: in italiano.
Ovviamente le immagini di questo momento fanno il giro del mondo attraverso i siti internet e sono tra le più cliccate tra le notizie del giorno.
La scelta del pontefice ha molteplici valenze e valori indotti. Anzitutto lascia riflettere sulla distinzione tra medium e messaggio, perché in questo caso la lingua del Papa, cioé il mezzo della comunicazione, ha rischiato di coprire l’importanza della comunicazione stessa, cioé appunto il messaggio. Il Papa non se ne è curato perché la sua opzione ha una motivazione pratica e pastorale insieme: Bergoglio, pur argentino e dunque di lingua spagnola, ha sangue italiano e ha studiato a Roma. Ha perciò una particolare dimestichezza con la nostra lingua che, da quando è salito al soglio di Pietro, utilizza normalmente perché sin dal primo momento ha voluto sottolineare che il papa è il vescovo di Roma: la capitale è la sua diocesi, prima ancora che sede dello Stato vaticano ed epicentro mondiale della cristianità.
Questo messaggio peraltro è stato ben compreso in giro per il mondo. Proprio le immagini del viaggio in Corea lo testimoniano: molti dei cartelli e degli striscioni di benvenuto sono scritti in italiano. I fedeli si rivolgono al Papa in italiano, non in inglese o in spagnolo. Il latino è, per tradizione, la lingua della Chiesa; l’italiano è la lingua di papa Francesco. In latino annunciò le proprie dimissioni papa Ratzinger; in italiano papa Bergoglio continua a predicare ai giovani di non farsi scippare la speranza.
Il valore indotto di questa traccia pastorale riguarda noialtri che in italiano parliamo e scriviamo, talvolta persino offendendone la grammatica: il Papa diventa (involontariamente) testimonial della nostra lingua.
Questo pontefice ha contribuito ad una consistente ripresa dei pellegrinaggi a Roma, e dunque dei viaggi in Italia, terra d’arte e di cultura in senso lato. Francesco, cioé il papa che è riuscito più volte a far gremire piazza San Pietro e via della Conciliazione da oltre 200mila persone, è il pontefice che muove le folle: ieri ha celebrato la messa davanti a un milione di persone. Papa Wojtyla arrivò a giocare al karaoke con i giovani (lo fece durante la sua visita a Lecce dopo l’inaugurazione del nuovo seminario); papa Bergoglio, pur mosso da altre motivazioni, sta promuovendo l’idioma nazionale e tutto ciò che ne consegue.
Tutto questo stride con la scarsa considerazione che noi italiani abbiamo della nostra lingua e, in generale, del nostro patrimonio culturale. Anche i dizionari più blasonati hanno dovuto aggiornare la lingua italiana con una serie di neologismi mutuati soprattutto dall’inglese, perché ormai utilizziamo nel linguaggio corrente idiomi a noi estranei. Un esempio: le cronache del viaggio del Papa in Corea raccontano dei selfie (non gli autoscatto) che i giovani hanno voluto fare con lui, utilizzando gli smartphone (non i telefonini) per poi inviarli ai propri amici via sms (cioé short message service, insomma i messaggini!) o per email (cioé posta elettronica)...
Noi italiani in fatto linguistico siamo ormai divisi in fazioni: da una parte quelli che parlano «bene», e cioé sono capaci di infarcire il proprio discorso di termini stranieri, mutuati dall’inglese ma non solo (si pensi alla parola spagnola movida, di uso comune per parlare di movimento finalizzato al divertimento). Ci sono poi quelli che parlano «benino», e cioé si limitano a non sbagliare la grammatica; infine quelli che parlano «male» l’italiano, perché lo arricchiscono di espressioni gergali o dialettali. Persino gli ambulanti neri che affollano le nostre spiagge in questi giorni hanno capito questa distinzione e propongono le loro mercanzie nello slang più appropriato: vu’ compra’, napoletano italianizzato ormai, ma - sul litorale barese - anche vu’ accattà...
Papa Francesco parla in italiano, a braccio, quando vuole essere meno formale e vuole parlare al cuore. Noi italiani, invece, è come se ci vergognassimo di essere spontanei e di valorizzare ciò che abbiamo: una lingua che è una tavolozza.