Echi di canti sacri in chiese rupestri

di GIACOMO ANNIBALDIS

Pietre che cantano. I luoghi sacri hanno una segreta vocazione alle sonorità liturgiche? È un dubbio che Marius Schneider (il noto e controverso etno-musicologo tedesco morto nel 1982) ha insinuato nelle nostre menti, quando - quasi rimproverando che «ci siamo abituati a un’arte che ignora il suono» - cercò di interpretare alcuni edifici medievali catalani come uno spartito musicale, che rimandava a melodie gregoriane.

La teoria di «acustica mistica» ora trova in Puglia una sua nuova eco, grazie alla inconsueta - quanto suggestiva - ricerca «Suoni di Pietra», condotta da docenti del Politecnico di Bari, capitanati da Ettore Cirillo, professore di Fisica tecnica. Gli studiosi pugliesi del Gruppo di Acustica (di cui fanno parte anche Francesco Martellotta e Michele d’Alba) hanno sottoposto a indagine e catalogazione alcune cripte rupestri di Puglia per comprendere quanto la sonorità delle grotte potesse favorire la giusta risonanza di melodie sacre e liturgiche.

Questo aspetto particolare della «civiltà rupestre» non era stato finora indagato. Da quando Cosimo Damiano Fonseca, nel 1970 (con il volume Civiltà rupestre in Terra Jonica) aveva posto la prima pietra per una rivalutazione rigorosa e necessaria, la «civiltà rupestre» ha conosciuto indagini sotto molteplici angolature: nell’ambito sociale e in quello religioso, nel pittorico e nell’architettonico... Ricerche che hanno confermato l’importanza di questa forma di civiltà nei secoli centrali del Medioevo, epoca in cui il rupestre ha raggiunto la più ampia e perfetta espressione nelle diverse tipologie, sia della grotta-abitazione che della grotta-chiesa, sia nell’interno del popolamento rurale che della geografia ipogeica.

Adesso finalmente la «civiltà rupestre» potrà vantare un’altra «visione», quella della efficacia acustica.

Il team barese va accumulando - a partire dal 2000 - esperienze nello studio delle caratteristiche acustiche delle chiese di ogni epoca, dal romanico al moderno: ben 60 edifici di culto perlustrati in tutta Italia. «Una cosa interessante - ebbe a dichiarare Ettore Cirillo in un’intervista all’«Osservatore Romano», nel 2007 - che abbiamo riscontrato esaminando il comportamento acustico in funzione del periodo di costruzione è che le chiese paleocristiane sono mediamente superiori rispetto a tutte le altre, probabilmente perché a questi tempi la comprensione della parola era un aspetto fondamentale dell’azione liturgica».

Con tale convinzione il gruppo è giunto a valutare le ricadute della loro indagine nelle chiese rupestri, quasi in un percorso a ritroso, facendo delle cripte un «punto di arrivo», mentre sarebbero, a rigore cronologico, un «punto di partenza». E scoprendo - sostengono - che «il contesto naturale (lame e gravine), le ridotte dimensioni che inducono forti risonanze in grado di enfatizzare i canti, l’uso di materiali duri (pietra e intonaci affrescati) e la presenza di ambienti secondari in grado di conferire un carattere riverberante al suono, malgrado la consistente presenza di aperture, contribuiscano a rendere unica l’esperienza sonora in questi luoghi».

D’altronde anche l’antica leggenda dell’«orecchio di Dionisio» lascia presupporre che le grotte (almeno alcune di esse) posseggano particolari caratteristiche acustiche, che esaltano il suono della voce, anche il sussurro: il sovrano siracusano riusciva ad ascoltare - a molta distanza e grazie alla risonanza delle cavità - le confidenze degli ignari prigionieri politici, rinchiusi nelle «latomie», le grotte-carcere situate presso l’antica città greca.

Ben cinque gli ipogei pugliesi sottoposti a indagine: San Nicola a Casalrotto a Mottola (Ta), Santi Andrea e Procopio a Monopoli (Ba), Lama d’Antico a Fasano (Br), San Michele a Gravina di Puglia (Ba), Santa Maria della Grotta a Ortelle (Le). Senza scendere troppo nei dettagli tecnici della strumentazione usata per le rilevazioni (dai particolari microfoni, ai marchingegni emittenti suoni, agli scanner laser 3D), l’indagine ha fornito risultati che confermano - sostengono i ricercatori - «come in tutti gli ambienti vi fosse una significativa riverberazione alle basse frequenze accompagnata da forti risonanze, mentre alle frequenze medio-alte (quelle più importanti per la comprensione della parola) si poteva beneficiare di un tempo di riverberazione molto più basso che contribuiva a mantenere chiari i messaggi sonori».

Cosa dedurne? Che «i canti bizantini - osservano ancora - potevano beneficiare particolarmente delle condizioni acustiche osservate, dal momento che - rispetto, ad esempio, ai canti gregoriani - sono molto più ricchi di basse frequenze, le quali risultano amplificate dalle forti risonanze indotte dagli ambienti, creando situazioni acusticamente molto suggestive».

Questi risultati di «acustica sacra» nelle cripte rupestri non possono non richiamare suggestioni bibliche e letterarie. Dalle «pietre che urlano» evocate da Gesù di Nazareth in risposta ai severi farisei che rimproveravano i suoi discepoli esultanti: «Se questi taceranno, urleranno le pietre» (Luca, 19, 40). Fino all’armonia nella cavità dei cieli con gli angeli in «perpetuo cantico di lode» davanti al trono dell’Eterno.

Di certo l’indagine degli studiosi baresi contribuisce ad accendere quella che gli antichi sapienti cinesi definivano «luce degli orecchi»: una via non visiva ma più meditativa per la comprensione della realtà. Che purtroppo la cultura occidentale moderna sembra aver del tutto smarrito.

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