Ma Kiavik non è un modello

di Michele Marolla

C’è da farsi venire il mal di testa perenne. La città è scombussolata da mesi. Sballottata fra scandali veri e presunti, arresti e indagati, intrecci tra criminalità ed economia sana, politica e malaffare di tutti i tipi, favori e magagne, escort di varia tacca e cozze pelose, buchi finanziari e bilanci falsi. Un terremoto continuo capace di distruggere anche i palazzi antisismici di Tokyo. Uno scuotimento che arriva alle fondamenta di una società, più che di una città. Un sistema in cui tutto è possibile, con il pretesto che siamo levantini, pronti a contrattare su tutto, anche sui diritti, sulle regole, sul rispetto della legalità.

L’impressione è che ci sia una sorta di lasciapassare tutto barese con il quale è possibile minimizzare i danni dell’illegalità. Essere fuorilegge, più che altro stare sul confine tra legale e illegale, diventa un vezzo. Il rispetto delle leggi e delle regole civili viene scambiato per fessaggine. Il furbo, anzi a Bari il chiavico, come il mitico personaggio di Kiavik inventato da Gennaro Nunziante e interpretato da Emilio Solfrizzi, quando furoreggiava con il duo Toti e Tata (Antonio Stornaiolo), è sinomino di bravura, di saper vivere, di successo.

Già, il successo: a Bari è l’esibizione di gioielli, nonostante il pericolo di essere scippati o rapinati. È la fila agli acquisti nei negozi delle grandi firme. È la moto da esibire agli angoli di via Sparano. È l’auto costosissima da parcheggiare in doppia, ma anche in tripla fila nelle strade del centro, ecchissenefrega dello street control. E successo non può far rima con fesso (tradotto: colui che rispetta le regole) bensì con chiavico, figlio di buona donna, furbo immarcescibile capace di qualunque azione, anche al limite della legalità, pur di poter splendere nel sole della popolarità. Salvo poi stupirsi se qualcuno un giorno lo arresta, dicendogli che le mazzette non sono un sistema legale, che vendere le partite non è corretto, che presentare fatture false è una truffa, che pagare per ottenere varianti e collaudi è un reato.

Bari e la società barese hanno bisogno di uno scatto di legalità, di riscoprire percorsi virtuosi, che rispettare leggi e comportamenti corretti paga. 

Ci vorrebbe una patente a punti per la legalità. Una sorta di percorso rieducativo che porti a rivedere i luoghi comuni sulla bravura dei furbi e ci restituisca una società più lineare, trasparente, corretta. Un’utopia? Sicuramente, ma uno sforzo serio in questo direzione occorre farlo, prima di essere definitivamente bollati come la capitale dei cialtroni, delle escort, del malaffare, dei ricottari (per dirla sempre alla barese). Perché questo siamo adesso per tutti. Certo, rischia di essere un’impresa titanica se si pensa alla inveterate abitudini, dal passare col rosso, al mancato uso del casco, dal mancato rispetto della fila al regalo al potente o all’impiegato di turno per ringraziarlo del suo interessamento, che caso mai era semplicemente il suo dovere.

Eppure il lievito c’è, esiste. Sono tanti i fermenti positivi di questa città, dalle associazioni di volontariato ai gruppi che sono tornati a discutere di politica in maniera aperta e trasparente, da chi si occupa con abnegazione dei nuovi poveri e delle nuove disperazioni a chi fa campagne contro lo sballo e il mito della vita spericolata. È da loro che bisogna ripartire. Con un bagno di umiltà, che forse questa crisi economica favorisce. Bisogna recuperare il senso della collettività come bene assoluto. Occorre restituire dignità alla città esaltando gli esempi di rettitudine, inventando un personaggio da contrapporre a Kiavik, che in fondo era un sempliciotto stupido, convinto di essere furbo, ma era soltanto uno sfigato. Come i furbetti degli ultimi tre anni di fuoco per questa città. Una manica di pericolosi cialtroni e poco più.
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