Milano, Italia variabile Bossi nel referendum sul Cavaliere
di GIUSEPPE DE TOMASO
Silvio Berlusconi è un provetto giocatore di poker. Alza sempre la posta, sicuro di possedere la carta vincente. Fino a quindici giorni addietro non sembrava particolarmente impegnato nella campagna elettorale nella sua città. Era sicuro che Lady Moratti avrebbe ottenuto il bis al Comune senza neanche una goccia di sudore. Successivamente i sondaggi gli hanno suggerito di prestare maggiore attenzione alla capitale lombarda: la marcia di Donna Letizia non s’annunciava come una passeggiata. Di qui il tuffo definitivo del capolista Berlusconi nell’arena meneghina. Alla sua maniera. E con un messaggio sottinteso, ma chiaro come il sole: «Amici, qui non è in ballo la rielezione del sindaco uscente. A Milano voglio un referendum sulla mia persona. Se vinco, il governo ripartirà in quarta. Se perdo, faremo i conti con chi ha causato la sconfitta».
Ovviamente, il premier non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi del flop.
Letizia Moratti, però, non ha agevolato la manovra del suo Principale. Il suo incredibile svarione nel teledibattito con Giuliano Pisapia potrebbe costarle caro in termini di consenso. Ufficialmente, il Cavaliere l’ha difesa a spada tratta. Ufficiosamente, pare di no. Il presidente del Consiglio, così raccontano alcuni retroscenisti di Palazzo Chigi, non ha gradito la performance della candidata. Un passo falso che si aggiunge al vero assillo che oggi più turba i sonni di Berlusconi: la strategia di Umberto Bossi.
Sulla carta la convivenza tra Lega e Pdl procede tranquilla come la luna di miele tra i principini britannici Kate e William. Sulla carta. In realtà, i rapporti tra Lega e Pdl non sembrano più a prova di bomba come un annetto fa. Umberto prende spesso e volentieri le distanze dall’amico Silviuccio, a cominciare dal caso Moratti per finire alla proposta berlusconiana di condono per le costruzioni abusive a Napoli. Ma è soprattutto nella triangolazione con Giorgio Napolitano che il Carroccio anziché sterzare verso Palazzo Chigi spesso s’incammina in direzione del Quirinale. Non è la prima volta che il Senatùr gioca di sponda con la presidenza della Repubblica. Nel 1994, forte del patto segreto con Oscar Luigi Scalfaro, che rassicurò i leghisti sul prosieguo della legislatura, Bossi ritirò l’appoggio al primo governo di Berlusconi, scatenando un putiferio col monarca di Arcore, che cesserà solo parecchi anni dopo e grazie alla mediazione di Giulio Tremonti.
Oggi lo scenario e i protagonisti sono in parte cambiati. Napolitano non è uomo da prestarsi a giochi pericolosi all’interno di una coalizione di governo. Ma Bossi è tipo da stare tranquillo? Cosa farà Bossi se il centrodestra perderà a Milano? Farà finta di nulla o presenterà un bel conto al Cavaliere? E se la verifica successiva tra Lega e Pdl sfociasse in un’inevitabile crisi di governo?
Certo, Milano è Milano, non è l’ultimo paesello di montagna. Se il tandem Berlusconi-Moratti dovesse uscire sconfitto dalle urne, il governo potrebbe risentirne a Roma. E il primo a mettere in dubbio il dogma del primato berlusconiano potrebbe essere proprio il comandante delle camicie verdi padane. Al quale non parrebbe vero di poter chiedere la luna: dai ministeri con sede al Nord alle nomine leghiste nel sottogoverno. Già adesso, Bossi ripete di avere in mano le chiavi del Paese. Figurarsi cosa esternerebbe qualora il Pdl s’indebolisse nella città del suo fondatore-animatore.
A questo punto, Bossi potrebbe convincersi dell’utilità di tornare alle urne. Oppure potrebbe puntare sulla soluzione del governo tecnico, prospettiva corredata di nome e cognome già da parecchio tempo: Giulio Tremonti. Se poi dovessero sorgere problemi per il Divo Giulio, l’Umberto potrebbe lanciare in pista il suo fedelissimo Roberto Maroni. E di fronte all’ipotesi del passo indietro del Cavaliere, centrosinistra e terzo polo non aspetterebbero nemmeno un minuto per dire sì a un governo Tremonti o a un governo Maroni.
Bossi è un animale politico più furbo di una volpe. Non conosce sentimentalismi e romanticismi. Appena vede un pertugio utile per la sua Lega, s’infila sùbito senza esitare. Ma, in caso di rottura, cioè di crisi, il boccino risalirebbe nelle mani di Napolitano. Toccherebbe a lui, al Capo dello Stato, decidere sulla sorte delle Camere. Se Napolitano fosse convinto della bontà e della giustezza di un tentativo «tecnico», Bossi si ritroverebbe nella condizione di 17 anni fa, quando la Lega diede il benservito al Cavaliere spianando così la strada al governo di Lamberto Dini. Se, invece, Napolitano fosse persuaso dell’aleatorietà o dell’inutilità di tutti gli sforzi tesi a rianimare una legislatura moribonda, allora ci sarebbe poco da discutere: a novembre 2011 gli italiani verrebbero richiamati alle urne.
Ecco perché è decisivo il voto di Milano. Berlusconi e la Moratti sono sicuri di vincere al primo turno. Ma nessuno esclude l’approdo al ballottaggio, che potrebbe rivelarsi più incerto di un derby inter-milan. Comunque. Dall’esito del duello Moratti-Pisapia dipenderà l’alleanza Berlusconi-Bossi. Cioè il destino della legislatura. E quindi del Paese.
Silvio Berlusconi è un provetto giocatore di poker. Alza sempre la posta, sicuro di possedere la carta vincente. Fino a quindici giorni addietro non sembrava particolarmente impegnato nella campagna elettorale nella sua città. Era sicuro che Lady Moratti avrebbe ottenuto il bis al Comune senza neanche una goccia di sudore. Successivamente i sondaggi gli hanno suggerito di prestare maggiore attenzione alla capitale lombarda: la marcia di Donna Letizia non s’annunciava come una passeggiata. Di qui il tuffo definitivo del capolista Berlusconi nell’arena meneghina. Alla sua maniera. E con un messaggio sottinteso, ma chiaro come il sole: «Amici, qui non è in ballo la rielezione del sindaco uscente. A Milano voglio un referendum sulla mia persona. Se vinco, il governo ripartirà in quarta. Se perdo, faremo i conti con chi ha causato la sconfitta».
Ovviamente, il premier non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi del flop.
Letizia Moratti, però, non ha agevolato la manovra del suo Principale. Il suo incredibile svarione nel teledibattito con Giuliano Pisapia potrebbe costarle caro in termini di consenso. Ufficialmente, il Cavaliere l’ha difesa a spada tratta. Ufficiosamente, pare di no. Il presidente del Consiglio, così raccontano alcuni retroscenisti di Palazzo Chigi, non ha gradito la performance della candidata. Un passo falso che si aggiunge al vero assillo che oggi più turba i sonni di Berlusconi: la strategia di Umberto Bossi.
Sulla carta la convivenza tra Lega e Pdl procede tranquilla come la luna di miele tra i principini britannici Kate e William. Sulla carta. In realtà, i rapporti tra Lega e Pdl non sembrano più a prova di bomba come un annetto fa. Umberto prende spesso e volentieri le distanze dall’amico Silviuccio, a cominciare dal caso Moratti per finire alla proposta berlusconiana di condono per le costruzioni abusive a Napoli. Ma è soprattutto nella triangolazione con Giorgio Napolitano che il Carroccio anziché sterzare verso Palazzo Chigi spesso s’incammina in direzione del Quirinale. Non è la prima volta che il Senatùr gioca di sponda con la presidenza della Repubblica. Nel 1994, forte del patto segreto con Oscar Luigi Scalfaro, che rassicurò i leghisti sul prosieguo della legislatura, Bossi ritirò l’appoggio al primo governo di Berlusconi, scatenando un putiferio col monarca di Arcore, che cesserà solo parecchi anni dopo e grazie alla mediazione di Giulio Tremonti.
Oggi lo scenario e i protagonisti sono in parte cambiati. Napolitano non è uomo da prestarsi a giochi pericolosi all’interno di una coalizione di governo. Ma Bossi è tipo da stare tranquillo? Cosa farà Bossi se il centrodestra perderà a Milano? Farà finta di nulla o presenterà un bel conto al Cavaliere? E se la verifica successiva tra Lega e Pdl sfociasse in un’inevitabile crisi di governo?
Certo, Milano è Milano, non è l’ultimo paesello di montagna. Se il tandem Berlusconi-Moratti dovesse uscire sconfitto dalle urne, il governo potrebbe risentirne a Roma. E il primo a mettere in dubbio il dogma del primato berlusconiano potrebbe essere proprio il comandante delle camicie verdi padane. Al quale non parrebbe vero di poter chiedere la luna: dai ministeri con sede al Nord alle nomine leghiste nel sottogoverno. Già adesso, Bossi ripete di avere in mano le chiavi del Paese. Figurarsi cosa esternerebbe qualora il Pdl s’indebolisse nella città del suo fondatore-animatore.
A questo punto, Bossi potrebbe convincersi dell’utilità di tornare alle urne. Oppure potrebbe puntare sulla soluzione del governo tecnico, prospettiva corredata di nome e cognome già da parecchio tempo: Giulio Tremonti. Se poi dovessero sorgere problemi per il Divo Giulio, l’Umberto potrebbe lanciare in pista il suo fedelissimo Roberto Maroni. E di fronte all’ipotesi del passo indietro del Cavaliere, centrosinistra e terzo polo non aspetterebbero nemmeno un minuto per dire sì a un governo Tremonti o a un governo Maroni.
Bossi è un animale politico più furbo di una volpe. Non conosce sentimentalismi e romanticismi. Appena vede un pertugio utile per la sua Lega, s’infila sùbito senza esitare. Ma, in caso di rottura, cioè di crisi, il boccino risalirebbe nelle mani di Napolitano. Toccherebbe a lui, al Capo dello Stato, decidere sulla sorte delle Camere. Se Napolitano fosse convinto della bontà e della giustezza di un tentativo «tecnico», Bossi si ritroverebbe nella condizione di 17 anni fa, quando la Lega diede il benservito al Cavaliere spianando così la strada al governo di Lamberto Dini. Se, invece, Napolitano fosse persuaso dell’aleatorietà o dell’inutilità di tutti gli sforzi tesi a rianimare una legislatura moribonda, allora ci sarebbe poco da discutere: a novembre 2011 gli italiani verrebbero richiamati alle urne.
Ecco perché è decisivo il voto di Milano. Berlusconi e la Moratti sono sicuri di vincere al primo turno. Ma nessuno esclude l’approdo al ballottaggio, che potrebbe rivelarsi più incerto di un derby inter-milan. Comunque. Dall’esito del duello Moratti-Pisapia dipenderà l’alleanza Berlusconi-Bossi. Cioè il destino della legislatura. E quindi del Paese.