L'odio e l'amore non fanno politica

di Giuseppe Giacovazzo
«A me il presepio non mi piace», ripeteva dispettoso il figlio al padre Eduardo in Casa Cupiello. E invano il povero papà continuava a supplicarlo spostando pecorelle e pastori. “Non mi piace e basta”, rispondeva ostinato il malandrino. Così questo presepe-Italia sotto Natale. A chi piace? 

Scorrono le parole dei politici dopo l’aggressione a Berlusconi. Parole più o meno false. Sia quelle degli amici che dei nemici più viscerali. Tutte affette da un vizio genetico: sono parole della politica. Si stenta a credere che vengano dal cuore. Arrivano ritardate dal filtro dell’interesse politico. Perché questo è il rischio della politica: finisce per sovrastare ogni altro valore ponendosi al più alto gradino della gerarchia umana, rendendo meno umani i mediocri. 

S’annida uno strano animaletto roditore nel politico. Si chiama “Cui prodest”. Ad ogni bivio e circostanza impone sempre la stessa domanda: “A chi giova?”. E invalida emozioni, sentimenti. Il pubblico sacrifica il privato. Le parole dei politici attorno al premier sono inquinate dal “cui prodest”. Se l’on. Cicchitto insorge con furore dai banchi di Montecitorio il suo assillo è giovare al suo partito. E i suoi avversari più che mai attenti ai distinguo: che nessuno dei loro abbia a confondere l’umano col politico. Bersani più accorto della Bindi e più prudente nel calcolo degli effetti. Di Pietro come al solito dirompente per smentire il suo piglio irriducibile. E pensate che Fini non abbia misurato politicamente il passo che ha fatto andando a visitare il premier? Insomma il “cui prodest” è il mal sottile della “damnatio politica”. Ossia la virtuale tendenza a quella freddezza dell’ani - ma che molti chiamano più francamente “cinismo”. Che però non ha nulla a che vedere con la cinica violenza di quanti sfogano su internet il loro livore. 

E tuttavia ha questo d’inquietante: ci rivela in certi momenti come stiamo diventando un po’ tutti, non solo i politici. Un paese che sta perdendo quel senso di pietà, una volta più cristiano, che dava più valore al sentirsi italiani. E anche alla nostra coscienza civile. Berlusconi si doleva con don Verzè al San Raffaele: “Ma perché mi odiano tanto?”. E poi uscendo dall’ospedale si è sentito circondato da più amore. Gli faceva eco all’opposto Marco Travaglio ad Annozero: “Ognuno ha diritto all’odio”. 

Non credevo che fosse un diritto. Se l’odio è l’anticamera della violenza, non vedo come la violenza possa essere un diritto. Comunque l’odio e l’amore non sono categorie della politica. Come la gratitudine, come la bontà. Anche l’odio di classe proclamato dal marxismo è cosa vaga, ideologica, metapolitica. Ciò che sfugge al nostro premier sofferente è il vizio capitale più diffuso in ogni popolo: l’invidia. L’invidia del successo che nessuno ti perdona, che avvelena la vita, ed è pane quotidiano in questa Italia bipolare alla vaccinara. Ma verso Berlusconi è aggravato da qualcosa che sta prima della politica: l’invidia della ricchezza. Non vedo esempi nelle democrazie moderne di tycoon al vertice della politica. Dall’America all’Europa nessun premier è giunto al sommo del potere con tanta opulenza e sconfinati patrimoni. Neanche nei paese protestanti, dove la ricchezza è stimato segno della divina benevolenza, le carriere politiche nascono da grandi fortune. 

Accanto alle classiche distinzioni istituzionali di Montesquieu c’è anche l’etica del potere politico autonomo dal potere economico. La saggezza di Luigi Sturzo ammoniva: “Chi è troppo attaccato al denaro non faccia l’uomo politico né aspiri a posti di governo. L’amore del denaro lo condurrà a mancare gravemente ai propri doveri”. No, non è dell’odio che deve preoccuparsi Berlusconi, ma solo dell’invidia, se può consolarlo. E non può che rassegnarsi. A ciascuno il suo presepio.
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