L'editoriale

Tutti bussano a quattrini, quasi nessuno chiede riforme

Giuseppe De Tomaso

L'Italia, una nazione il cui deficit culturale è di gran lunga più grave del super-debito finanziario, anche perché quest’ultimo (il debito) è assecondato dal primo

Roba da non crederci. L’altra sera gli inviati di una trasmissione tv hanno chiesto a parecchi parlamentari cosa significasse l’acronimo PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) e a quanto ammontasse la quota di finanziamenti a disposizione dell’Italia. Non sapeva rispondere nessuno.

Neppure sulla cifra complessiva delle risorse da impiegare qualcuno ha fatto una migliore figura.
Ogni commento è superfluo. Come possa risalire la china un Paese, la cui classe dirigente è affollata di soggetti che ignorano l’argomento del giorno, resta francamente un mistero. Ma, tant’è. Mistero più, mistero meno, questa è l’Italia. Una nazione il cui deficit culturale è di gran lunga più grave del super-debito finanziario, noto a tutti, anche perché quest’ultimo (il debito) è assecondato dal primo, ossia dalla scarsa conoscenza, dalla modesta preparazione di chi concorre a legiferare e decidere.

Ma non è finita. Succede che numerosi parlamentari e amministratori a digiuno dell’abc di molte cose, compreso il Recovery Plan, siano i più scatenati nell’urlare contro i programmi dei governi nazionali e dell’Europa, salvo poi non sapere nulla della materia su cui sbraitano e salvo poi (gli amministratori) intercettare e impiegare poco e male i finanziamenti stanziati da Roma e da Bruxelles.

L’importante, per gli incontentabili di professione, per gli urlatori a tempo indeterminato, per i sacerdoti del piagnisteo, è lamentarsi dei soldi che non sarebbero mai sufficienti, che invece, a loro parere, andrebbero, come minimo, raddoppiati, anche quando e dove i tradizionali cultori del singhiozzo e della protesta non brillano (eufemismo) per efficienza, rapidità di cantierabilizzazione e realizzazione delle opere, e per capacità nell’ottenere ristori nazionali ed europei. Così. Più non sanno investire, più si lasciano sfuggire molte opportunità, più si sgolano a perdifiato. L’importante è che ci sia una tv o un giornale a darne notizia.

Da tempo, Mario Draghi sta insistendo su un concetto basilare: è vero, senza soldi non si può fare nulla, ma se non si varano le riforme in grado di accelerare, facilitare e moralizzare gli investimenti, tanto vale mettersi l’animo in pace perché la locomotiva Paese non ripartirà mai.

Il premier ha, elegantemente, definito «inerzia istituzionale» il male oscuro che spinge lo Stivale ad arretrare, anziché ad avanzare. Ma la sua lezione pedagogica non trova molti adepti nella nazione, dove il modo di ragionare del premier, a dispetto delle alluvionali attestazioni di stima nei suoi confronti, è di sicuro in minoranza, sia nel Palazzo sia nella Piazza.

La dimostrazione? Non c’è nessuno, in questi giorni, che chiede di far presto nel parto delle riforme sollecitate dall’Europa e dal buon senso. Tutti sono impegnati e concentrati nel bussare a denari. Per fare cosa? Boh. In realtà ci sarebbe tantissimo da fare. Ma i progetti pronti per partire dove sono? E le procedure snellite per agevolare gli investimenti dove stanno? E le professionalità nelle Regioni e negli enti locali dove si trovano, alla luce della montagna di miliardi spesso inutilizzati? Per non parlare dei numerosi Fronti del No che spuntano come funghi, a livello locale, tutte le volte, o quasi, che si affaccia un’idea infrastrutturale o produttiva. E però i soldi non bastano mai.

Fossimo al posto di Draghi, andremmo in tv e ci rivolgeremmo direttamente agli italiani: «Carissimi, anche se dopo un treno ce n’è sempre un altro in arrivo, stavolta rischiamo davvero di non vederne più uno all’orizzonte, per parecchio tempo. Le riforme su giustizia, pubblica amministrazione concorrenza eccetera non sono un mio capriccio, ma costituiscono il punto di partenza per qualsiasi manovra di risanamento finanziario, che non può fare a meno, per gli investimenti, dei capitali interni ed esterni. La pandemia ha vieppiù aggravato i limiti del Sistema Italia, sempre più ingessato e refrattario alle spinte produttive. Per fortuna i miei colleghi europei sono prodighi di apprezzamenti verso la mia persona, ma fino a quando può durare questa carta di credito? Loro si aspettano che l’Italia spenda al meglio gli euro del Recovery Plan, dal momento che se ciò non si verificasse, salterebbe, nell’Unione, il piano di condivisione, di mutualizzazione del debito, faticosamente accettato dalla rigorosa Germania. Ecco perché le riforme a costo zero sono più importanti delle opere con molti zero. Ecco perché mi batto, senza pause, per questo obiettivo. Ne va dell’avvenire delle prossime generazioni, perché senza l’Europa i nostri ragazzi si ritroverebbero, tra pochi lustri, senza bussola e tutti più impoveriti e isolati».

Chissà se un discorso di questo tenore, a reti unificate, possa sortire l’effetto di una sveglia generale. Ma qualcosa bisogna fare per evitare la stucchevole contrapposizione tra dispensatori e dissipatori di risorse, anche perché i più abili nell’intercettare quattrini, quando la macchina amministrativa non cammina, sono i campioni della Razza Predona, gli specialisti della criminalità organizzata, i consulenti di tutte le mafie.

Ci mancherebbe pure questo, allora. Che i miliardi per il Recovery inquinassero e corrompessero il Sistema più di quanto riuscì a fare il fiume di soldi a casaccio per la ricostruzione dell’Irpinia dopo il terremoto del novembre 1980.

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