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Michele Partipilo
22 Febbraio 2021
foto Ansa
Un anno fa l’Italia entrava ufficialmente in era Covid. Ieri ci sono state molte celebrazioni per ricordare le vittime e dire grazie ai tanti che si sono prodigati per arginare la pandemia. Sono stati piantati alberi e scoperte targhe ed è giusto che sia così, fa parte di quegli arcaici rituali elaborati dall’uomo per superare le tragedie e trovare la forza di andare avanti.
In questi lunghi mesi ci è stato spesso ricordato che le nostre esistenze non sarebbero state più le stesse e che avremmo dovuto imparare a convivere col virus maledetto. È quello che bene o male sta accadendo. Il primo frammento del muro che un anno fa ci separò dalla vita normale sta cadendo. È rappresentato dalla paura. Era la paura di un nemico ignoto, la paura di andarsene soli, la paura di restare soli, la paura di non farcela. La combattemmo cantando insieme dai balconi nelle serate con le strade deserte e le vetrine spente. Ora abbiamo smesso di cantare e di suonare dai terrazzi perché non abbiamo più paura. Il virus c’è ancora e i morti pure, tanti. Ci siamo organizzati per non portarli via all’alba sui camion militari, come se fossero delinquenti o miscredenti. Ma non ci fanno più paura, se non quando ti toccano nella carne e se ne va una persona cara, una madre, un figlio, un nonno. Continuano ad andarsene soli, senza un addio né un sorriso, ma ormai è così.
Siamo cambiati, chissà se nel senso che tanti si auguravano, ma siamo cambiati e non abbiamo più paura. Siamo pronti a convivere con il virus.
Ed è per questo che non ascoltiamo più i consigli degli esperti. Un anno fa li rispettavamo come nelle primitive tribù si obbediva agli sciamani. Senza chiedere né contraddire, anche quando in tv si accapigliavano come galli in un pollaio. Ma allora avevamo paura. Oggi sappiamo che ci chiedono sempre la stessa cosa: stare in casa, non incontrarsi, non abbracciarsi, non andare al bar o in pizzeria o al cinema. Tutti chiusi e reclusi, con le città trasformate in conventi di clausura e le piazze diventate chiostri dei monasteri dell’isolamento. Ma questo non è vivere – pensiamo – questo è sottomettersi alla dittatura del virus. E le dittature, si sa, a un certo punto non vanno più assecondate e bisogna ribellarsi, bisogna cercare di rovesciarle, anche a costo della vita. C’è un «eroismo» dilagante che colora ormai i nostri giorni, in cui neppure le forze di polizia riescono a contenere gli assembramenti, a fermare l’esercito di giovani che ai primi raggi del sole di fine inverno vogliono godersi la loro età, l’amicizia, il bacio di una ragazza.
Abbiamo sofferto e avuto paura per un anno, adesso siamo stanchi ed esausti. C’è una voglia di tornare alla vita di sempre che prende il sopravvento. Riapriamo i bar, i ristoranti, i teatri, facciamo sposare le coppie che hanno rinviato matrimoni, feste e progetti. Riprendiamoci la vita. Eppoi, non ci sono ormai i vaccini? Certo, ci vorrà un po’ di tempo per la punturina a tutti, ma non si può aspettare ancora a lungo. Tanto, il virus non ci fa più paura, non ci angoscia più le notti con quel silenzio che copre i luoghi dove un tempo c’era la movida chiassosa e rutilante di voci.
È la strada giusta quella della trasgressione e della rivolta? Quella degli assembramenti per uno spritz e delle feste clandestine per un compleanno? Gli scienziati, di cui abbiamo all’improvviso scoperto il ruolo e il potere, dicono di no. Ma che ne sanno loro della voglia di vivere? Che ne sanno dell’ebbrezza della sfida a un nemico invisibile e perfido? Loro ragionano con algoritmi epidemiologici e varianti genomiche, mica con l’energia del testosterone. E allora forza, tutti insieme nelle strade, tutti insieme al bar e basta con sto’ coprifuoco alle 22, che pure nelle favole di cent’anni fa scattava a mezzanotte.
In fondo l’avevano detto loro, proprio loro gli scienziati, che dovevamo imparare a convivere con il virus. Ed eccoci, pronti a tenercelo in casa, pronti a farci a portare via all’improvviso, pronti a farci rubare gli affetti più profondi. È come in una guerra, non stiamo più nelle trincee, ma andiamo all’assalto baionette in canna, ebbri dell’illusione di prenderci il nostro tempo.
È giusto comportarci così? L’istinto e la naturale propensione alla libertà dicono di sì. Nell’uomo la saggezza e le virtù sono frutto di maturità e consapevolezza. È allora necessario cercare di dare un senso a tutto quello che ci sta accadendo, alle nostre vite interrotte, se vogliamo continuare a combattere il virus. I posti di lavoro persi, le aziende fallite, i sacrifici di una vita andati in fumo sono ormai così pesanti che sovrastano ogni razionalità. La ribellione silenziosa che inizia a serpeggiare si può dominare solo se riusciamo a dare un senso all’immane tragedia provocata da un microscopico virus che però è devastante quanto e più di un asteroide. Siamo uomini e donne fragili che sfuggiamo all’insecuritas della vita rifugiandoci nel carpe diem. Oggi più che mai è formula perdente.
Per vincere e per sopportare ancora le privazioni occorre trovare una nuova forza dentro, oppure fra un anno staremo ancora a discutere di zone rosse e gialle e di assembramenti. E anche le targhe e gli alberi piantati per ricordare i morti saranno invereconda routine.
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