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Ugo Sbisà
06 Gennaio 2020
Diciamolo subito e chiaramente: Amadeus si è già contraddetto prima ancora di mettere piede sul palcoscenico dell’Ariston. Perché il suo «Sanremo imprevedibile» sta già seguendo un copione prevedibilissimo: quello delle polemiche feroci che, precedendo il Festival di un mese, finiscono per alimentare - o così almeno spera qualcuno - la curiosità e le attese. Passati gli anni delle contestazioni ai cachet della Littizzetto, colpevole di essere pagata troppo per portare in scena una comicità «di sinistra»; metabolizzata l’edizione del 2019, segnata dalla «scandalosa» vittoria di Mahmood, italiano per jus soli, ma di padre egiziano, in questi giorni la politica è tornata a infiammarsi - come se non avesse altro a cui pensare - sul nome di Rula Jebreal. Non una donna di spettacolo, ma una giornalista palestinese, «colpevole» di aver affermato che gli italiani sono un po’ razzisti, argomento molto sensibile viste le preventive censure bipartisan riservate a Checco Zalone per la sua canzone Immigrato.
La Jebreal «dovrebbe» affiancare Amadeus in una delle serate sanremesi e il condizionale è presto spiegato: le polemiche fioccate all’annuncio della sua partecipazione al Festival sono state tali da indurre la Rai a frenare e a congelare l’invito. E contemporaneamente hanno messo il leader della Lega Salvini - che quando si parla di razzismo viene puntualmente tirato in ballo come il cacio sui maccheroni - a dover precisare: «Ma con tutti i problemi che ho mi occupo di Sanremo e delle conduttrici di Sanremo? Invitino chi vogliono, è l’ultima delle mie preoccupazioni, onestamente».
Fin qui la cronaca, in tutta sincerità poco appassionante, come le polemiche di contorno fioccate ad esempio sulla possibile partecipazione di Michelle Obama. Che non si sposta gratis, ma che ovviamente fa «arrabbiare» quanti accettano l’idea che la televisione possa pagare qualcuno - in Rai venne coniata la fantasiosa descrizione di «ospite oneroso» - solo se è una star del pallone o, al massimo, un divo del rock d’Oltreoceano.
C’è però un aspetto, scusate tanto, che continua a sfuggire a molti e cioè che stiamo parlando del Festival della canzone italiana, anche se poi, della sua natura musicale, finiamo per ricordarci solo nelle inutilmente cinque (e altrettanto inutilmente lunghe...) serate televisive. Perché sino alla serata inaugurale - a proposito, stasera verranno ufficializzati i Big in gara - di Sanremo si parla e su Sanremo si litiga per qualunque motivo tranne che per le canzoni. Eppure, per quei tre minuti di melodia, c’è gente che piange e che spera e c’è persino chi compie degli atti estremi come Franco Ciani, l’autore che nei giorni scorsi si è tolto la vita - sembra - in seguito all’esclusione dal Festival di una canzone con la quale sperava di risollevarsi da un tracollo economico. Un gesto molto diverso da quello di Luigi Tenco, ma che in ogni caso ci riporta ai retroscena delle sette note, che la politica ignora, evidentemente perché non fanno audience.
Qualche settimana fa, un autore navigato come Mogol ci ha chiaramente ribadito: «Sanremo funziona se funzionano le canzoni», sottolineando la necessità di porre attenzione e competenza alle scelte artistiche. Tutto il resto è contorno, del quale si potrebbe tranquillamente fare a meno. E allora lasciateci parafrasare una frase sin troppo ascoltata negli ultimi tempi: «Prima la musica!». Perché sì, in questo senso siamo proprio razzisti.
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