L'editoriale
Tutti contro il neoliberismo «egemone» a buon mercato
I fatti, si sa, hanno la testa dura. «Tutti hanno diritto ad avere una propria opinione, ma nessuno ha diritto ai propri fatti», avvertiva il senatore americano Pat Moynihan (1927-2003). Ma c’è chi gioca coi fatti cascando nella «fallacia del nirvana», ossia nell’idealizzazione di un’isola che non c’è; e c’è chi indulge nell’intossicazione ideologica, cioè nella demonizzazione di tutto ciò che non corrisponde alle proprie certezze. Entrambi questi atteggiamenti sono figli di quella «trappola cognitiva» che trascura la realtà, o che fa a pugni con i fatti, stravolgendoli ora con strafottenza ora con indifferenza, a dispetto di dati, cifre, analisi e approfondimenti vari. Lo sapevate che la spesa sociale è cresciuta, in America, anche tra il 1981 e il 1989, durante la presidenza di Ronald Reagan (19011-2004)? E che Margaret Thatcher (1925-2013), in Gran Bretagna, introdusse in campo finanziario restrizioni, a iniziare dal reato di insider trading, che non combaciano con il tailleur di ultrà del liberismo che le è stato cucito addosso? E potreste immaginare che, numeri alla mano, la Germania più che un’economia sociale di mercato esprime uno Stato sociale di mercato?
Alberto Mingardi, direttore e fervido animatore dell’Istituto Bruno Leoni, ha appena sfornato il suo nuovo libro, una fabbrica di spunti, il cui obiettivo è quello di sfatare, di demolire, con meticolosità sciasciana, il luogo comune più frequentato degli ultimi tempi: l’egemonia del neoliberismo. Dal cui strombazzato trionfo deriverebbero tutti i guai (mercato del lavoro fermo, clima impazzito, uragani, crisi finanziarie e sfide militari) della Terra (e dello Stivale).
«La verità, vi prego, sul neoliberismo», è il titolo esortativo del volume (392 pagine, 20 euro) edito da Marsilio. Il sottotitolo dice tutto: «Il poco che c’è, il tanto che manca». Il che ci riporta a un carteggio semi-pirotecnico (1954) tra Giorgio La Pira (1904-1977) e Luigi Sturzo (1871-1959). Il primo, La Pira, riconosce che i tre quarti dell’economia nazionale fanno riferimento allo Stato, ma vorrebbe che anche il restante «quarto» fosse sottratto all’iniziativa privata. Il secondo, Sturzo, preferirebbe il processo inverso, anzi si meraviglia che La Pira, incontentabile, invochi, di fatto, la statizzazione totale dell’economia, e ricorda (sempre Sturzo a La Pira) che l’Italia non è e non deve diventare uno Stato sovietico. Sturzo non la manifesta in maniera così esplicita, ma la sua sensazione è che tutto ciò che non è comunista viene considerato liberista dalla vulgata corrente. Lo stesso intervento pubblico a volte viene contrabbandato per liberismo, se ciò serve ad allungare vieppiù il raggio d’azione dello Stato in economia.
La tesi di Mingardi è che il liberismo-liberismo non è mai esistito, tanto meno il cosiddetto neoliberismo. Uno, perché tutti i governi tendono a intromettersi nelle vicende economiche. Due, perché gli stessi intellettuali di matrice liberista non sono un esercito, possono formare un cenacolo assai ristretto, di sicuro sono fuori dai giri che contano né hanno modo di incidere sulle decisioni dei vari Principi. Tanto meno di cospirare ai danni di qualcuno, come invece sostengono i loro antagonisti.
Quel poco di liberismo che caratterizza l’area che una volta si definiva Occidente deriva da fatti episodici, come l’ascesa di Ludwig Erhard (1897-1977), padre del miracolo economico tedesco; o come le direttive di Luigi Einaudi (1874-1961) ai governi centristi capitanati da Alcide De Gasperi (1881-1954); o come la breve stagione della coppia Reagan-Thatcher.
Eppure, ricorda Mingardi, si deve a quel poco di liberismo il più spettacolare periodo di sviluppo mai vissuto dal genere umano. La popolazione mondiale ora viaggia verso gli 8 miliardi di persone, ma solo una piccola minoranza è assediata dalla fame (pochi decenni addietro, su una popolazione assai più ridotta, il numero dei denutriti era di gran lunga più alto).
È un merito che pochi riconoscono all’economia libera, dal momento che il confronto intellettuale tra l’interventismo di John Maynard Keynes (1883-1946) e il liberoscambismo propugnato dalla scuola austriaca, ha visto prevalere nettamente il primo. Tutti, da decenni, si definiscono keynesiani. Scelta bipartisan: a destra e a sinistra. Si definiva keynesiano pure il presidente Richard Nixon (1913-1994), simbolo dei conservatori americani.
Eppure, lascia intendere Mingardi, le leggi dell’ economia sono una miniera di domande (e risposte da dare). Chi decide i prezzi di prodotti e servizi? Chi stabilisce quali sono i settori meritevoli di essere finanziati? Chi può meglio allocare le risorse? Lo Stato è in grado di realizzare il calcolo economico? Il pianificatore centrale possiede tutte le informazioni necessarie per decidere dove investire? Chi sa, ad esempio, che nei Paesi dell’Est sovietico mancavano gli assorbenti per le donne perché la nomenklatura, solitamente maschile, ignorava il problema?
Sostiene Mingardi: non solo non esiste alcun complotto da parte dei neoliberisti per impadronirsi degli Stati, ma non si può bollare per liberista il protagonismo di uno Stato che ogni anno preleva metà della ricchezza prodotta dai privati.
Mingardi ammette che il mercato non è un sistema perfetto, anzi è un processo di apprendimento imperfetto. Ma l’alternativa - l’economia pianificata - non regge il confronto, a cominciare dai criteri per l’utilizzo delle risorse: meglio il sistema dei prezzi o il decisionificio della politica? «Ogni tanto - scrive Mingardi - l’economia di mercato crea condizioni che ricordano un po’ il farsi cavare un dente senza anestesia. Ma il suo contrario è accontentarsi dell’illusione che a furia di anestesie non ci sia più bisogno di togliere il dente».
Ma grazie a questo sistema imperfetto si è realizzato il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci; grazie a questo sistema le differenze tra gli stili di vita di ricchi e poveri si sono attenuate (anziché acuirsi); grazie a questo sistema è stato possibile reggere l’onda d’urto dell’immigrazione, che Mingardi giudica una ricchezza, non un peso.
Perché, allora, verrebbe da chiedersi, il mercato non gode di buona stampa e la parola neoliberismo viene ritenuta più blasfema di una bestemmia davanti all’altare? Solo colpa degli intellettuali ostili al rischio d’impresa, al consumismo e alla ricchezza? Solo colpa dei nuovi vincitori della politica che cercano di coniugare statalismo e nazionalismo, populismo e anti-globalismo? Solo voglia di protezioni e protezionismi?
Probabilmente, azzardiamo noi, alla causa e alla reputazione del mercato, paradossalmente, non ha giovato il crollo dell’impero sovietico. Fino a quando c’era il Muro di Berlino, fino a quando cioè era possibile confrontare il burro e le luci dell’Ovest con i carri armati e il buio dell’Est, il benessere dell’Occidente con il malessere dell’Oriente, non c’era partita nel giudizio dell’opinione pubblica. Si scappava da Est, non da Ovest.
L’eutanasia del socialismo reale ha però contribuito ad accendere i fari (solo) sul capitalismo reale ricompattando, sul piano culturale, scettici e nemici e, sul piano politico, vasti settori di destra e sinistra. Tutti col fucile spianato contro il neoliberismo (immaginario). Perfetto capro espiatorio per una società che ai fatti preferisce le interpretazioni ad usum delphini.
Giuseppe De Tomaso
detomaso@gazzettamezzogiorno. it