L'analisi
L'alibi economico dell'autunno caldo
Nella storia politica del nostro travagliato Paese, l’espressione «autunno caldo» riporta la memoria a quel periodo di quasi mezzo secolo fa, fra il settembre e il dicembre del 1969, quando la «questione operaia» esplose con una forza d’urto che né gli imprenditori né gli stessi operai avevano previsto. A un anno dal mitico Sessantotto, la mobilitazione sindacale scattò alla scadenza dei contratti collettivi di lavoro e in particolare di quello dei metalmeccanici. Oltre cinque milioni di addetti all’industria, all’agricoltura, ai trasporti e a tanti altri settori, scesero in piazza per difendere le loro rivendicazioni salariali unendosi alle agitazioni studentesche che reclamavano il diritto allo studio per tutte le fasce sociali.
Da allora, altri «autunni caldi» si sono succeduti nella vita pubblica nazionale, seppure con ragioni e modalità diverse, alla ripresa dell’attività politica dopo la pausa estiva. E con ogni probabilità sarà così anche quest’anno, a causa degli allarmi sulle speculazioni finanziarie internazionali contro l’Italia. Nei giorni scorsi, è stato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il leghista Giancarlo Giorgetti, laureato in Economia alla Bocconi, a dire esplicitamente che «a fine agosto i mercati ci attaccheranno». Non è certamente un annuncio da prendere sotto gamba, anche se il vicepremier grillino Luigi Di Maio, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, s’è affrettato a dichiarare invece al Corriere della Sera che non c’è «un rischio concreto» e ad assicurare che «non siamo ricattabili», come se si trattasse di un rapimento a scopo di estorsione.
Abbiamo appena visto quali effetti hanno prodotto le ultime manovre speculative sulla lira turca e sull’economia di quel Paese. Tanto da indurre il presidente Erdogan a reagire contro gli Usa di Donald Trump, minacciando di uscire dalla Nato per stabilire nuove alleanze, presumibilmente con la Russia dello zar Putin. Ma noi, poveri italiani, dove potremmo andare e con chi? Uscire dall’Unione europea e dall’euro per passare sotto il controllo di Mosca? Tornare alla lira o alla liretta?
Il fatto è che l’Italia, come si sa, detiene purtroppo il più alto debito pubblico d’Europa e il terzo del mondo: oltre 2.000 miliardi di euro, un maxi-mutuo collettivo su cui paghiamo gli interessi per sostenere le spese statali (stipendi dei dipendenti pubblici, sanità, scuola e quant’altro). Se il Paese non fosse o non apparisse più affidabile, al pari di un debitore insolvente che deve ricorrere agli usurai, sarebbe costretto a offrire tassi maggiori per piazzare i titoli di Stato e ottenere altri prestiti sui mercati. E così si avviterebbe nella spirale perversa dell’ulteriore indebitamento, magari con la svalutazione della «nuova lira» e quindi dei nostri risparmi e dei nostri beni immobiliari: non a caso lo «spread» tra Btp e Bund tedeschi, indice della nostra credibilità finanziaria, ha ripreso a salire anticipando il prossimo «autunno caldo».
È a una prospettiva del genere che si riferisce probabilmente il sottosegretario alla presidenza del Consiglio quando lancia l’allarme e paventa l’attacco dei mercati a fine agosto. Ma con buona pace del vicepremier Di Maio non c’è una Spectre, una centrale del Male, una banda sovranazionale di estorsori che complotta contro l’Italia per ricattarla. In realtà è l’Italia giallo-verde che complotta contro se stessa, predisponendo provvedimenti senza adeguate coperture, prospettando sforamenti di bilancio, stimolando e favorendo così la speculazione internazionale, nonostante i richiami del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria. Siamo noi, insomma, che rischiamo di indebolirci e danneggiarci da soli.
Perché, allora, il sottosegretario Giorgetti si preoccupa di mettere le mani avanti? Perché, nel ruolo e dalla posizione di responsabilità che gli competono, non si adopera per prevenire e contrastare questi attacchi annunciati? E soprattutto, perché il governo giallo-verde non corre immediatamente ai ripari, per cercare di spegnere subito l’incendio prima che la casa bruci?
La spiegazione più verosimile è che l’attuale maggioranza, non essendo in grado di mantenere tutte le promesse e gli impegni assunti in campagna elettorale, stia aspettando o cercando un alibi esterno per discolparsi in qualche modo agli occhi degli italiani. Un alibi economico per giustificare l’impotenza politica. E per rovesciare così le responsabilità sugli altri, su «quelli che c’erano prima», sui mercati finanziari, sulle agenzie di rating, sui grandi fondi d’investimento, sugli speculatori internazionali, su tutti i potenziali nemici del «governo del cambiamento».
Con l’aria che tira oggi in Italia, si può pure immaginare che una buona parte dei cittadini siano disposti a credere alla fiction giallo-verde; ad accettare e condividere questa narrazione della crisi come un fenomeno esogeno; a subire la persuasione occulta di una propaganda governativa che tende a rimuovere le cause profonde della situazione in cui ci troviamo e a eludere i rimedi per affrontarla. Ma, prima o poi, dovremo fare i conti con la realtà. E possiamo solo auguraci che a quel punto non sia troppo tardi.
Giovanni Valentini