Ali e radici

La flautista salentina del jazz senza cliché

Ugo Sbisà

Una eccellente prova delle capacità e delle attitudini di Mariasole De Pascali è fornita da Fera, un cd edito nella prestigiosa collana discografica del romano Parco della Musica

La recente affermazione al referendum Top Jazz in cima alla categoria dedicata ai migliori talenti italiani ha acceso i riflettori sulla flautista pugliese Mariasole De Pascali. Trentacinquenne, salentina, con studi svolti anche sotto la guida di Gianni Lenoci e collaborazioni discografiche con un… «lenociano» doc come il sassofonista Francesco Massaro, la De Pascali appartiene a quella schiera di nuovi interpreti musicali che hanno ben chiaro il significato dell’essere «contemporanei», implicando in questa definizione un rifiuto dei tradizionali cliché di genere, in favore di una ricerca sul linguaggio che sappia essere al contempo sperimentale e inclusiva e soprattutto che eviti la facile trappola dell’eclettismo, in favore di una percorso creativo teso al raggiungimento dell’unitarietà nella frammentarietà.

Come se, in altre parole, la scelta di accostarsi all’attività compositiva e improvvisativa facendola discendere da una riflessione filosofica sulle frontiere ultime dei linguaggi sonori, fosse una ideale risposta a quella fine delle ideologie sociali le cui tangibili conseguenze si colgono sempre più concretamente nel nostro vivere quotidiano.

Una eccellente prova delle capacità e delle attitudini della De Pascali è fornita da Fera, un cd edito nella prestigiosa collana discografica del romano Parco della Musica, nel quale è dato ascoltarla sia come solista, sia come compositrice, in compagnia di una eccellente compagine a sua volta in buona parte pugliese: la compongono Giorgio Distante a tromba e tuba, Adolfo La Volpe a chitarre elettriche ed elettronica, Lucio Miele a vibrafono e batteria e, in un solo brano, Daniele Roccato al contrabbasso. E diciamo subito che, almeno rispetto alle abitudini del medio «consumatore» di jazz e dintorni, Fera è un lavoro che rischia di apparire per niente facile, ma proprio nell’impegno che richiede agli ascoltatori risiede il suo valore, che va ben oltre il semplice interesse intellettuale.

Attraverso i dieci brani in scaletta, dall’iniziale Misofonia al finale Un giorno bianco, Fera propone un percorso che potrebbe apparire come un labirinto sonoro nel quale le immagini ora cupe, ora iridescenti, si infrangono e si rifraggono tra oggetti sonori memori della cosiddetta drone music, distorsioni al limite del rumoristico, iterazioni meccaniche da boîte à musique del terzo millennio, attraverso episodi musicali che fluttuano nel magma esecutivo rievocando ora gli storici units tayloriani, ora invece il rock hendrixiano o le frontiere della più estrema musica contemporanea.

Un sapiente gioco di contrasti nel quale la De Pascali s’inserisce autorevolmente anche come solista, usando il flauto per amplificare il «respiro», percuotendone le chiavi, ma all’occorrenza anche costruendo delle frasi su note lunghe e ridondanti, come accade ad esempio proprio in Fera, nel quale oltretutto sa usare con grande efficacia la tecnica della respirazione circolare. Opera complessa dunque, che lascia presagire ulteriori sviluppi di sicuro interesse, ma che spinge anche a riflettere sullo stato di salute di molta musica d’oggi, troppo spesso incline a sterili autocompiacimenti e tendente al conseguimento di consensi tanto immediati, quanto effimeri. Un coraggioso invito a riscoprire l’ebbrezza delle sfide, nella ricerca, così come nelle scelte d’ascolto.

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