Ali e Radici

Vito Morea, pioniere del «nostro» jazz

Ugo Sbisà

Ulteriori testimonianze lo indicano come primo solista italiano di sax baritono

La vicenda del banjoista di Monte Sant’Angelo Michele Ortuso, cui era dedicata la precedente puntata di questa rubrica, ci consente di tornare a parlare del contributo dato dai musicisti pugliesi al primo jazz italiano e il motivo è presto detto, perché quando nel 1924 Ortuso sostenne il provino per essere assunto nell’orchestra romana della Casina delle Rose, fra i musicisti che lo ascoltarono con entusiasmo c’era anche un altro pugliese, il giovane clarinettista e sassofonista nocese Vito Morea (1897 – 1947). Di quest’ultimo musicista si sarebbe parlato pochissimo se non fosse stato per Adriano Mazzoletti – senza dubbio il più autorevole e attento storico del jazz italiano – che lo ha ricordato nei propri libri, fornendoci informazioni e testimonianze preziosissime. Peraltro, il suo lavoro di recupero ha trovato sponda anche in quel di Noci grazie al musicista, poeta e operatore culturale Vittorino Curci che ha contribuito a rilanciare la figura di questo dimenticato pioniere del nostro jazz. Morea era quindi nato a Noci ed era uno dei figli di un sarto molto apprezzato, titolare di una bottega in via Albanese.

All’epoca dell’incontro con Ortuso, si era già trasferito a Roma da qualche tempo, dove lavorava come clarinettista della Banda comunale. In precedenza, dopo aver suonato nelle bande del suo paese, si era anche fatto le ossa nella banda dei Carabinieri, che però aveva dovuto abbandonare per motivi di salute. Sempre a Roma, tra l’altro, aveva conseguito il diploma in clarinetto al Conservatorio di Santa Cecilia, il cui direttore era il grande compositore Ottorino Respighi. Il corso degli Anni ‘20 vede Morea impegnato in diverse orchestre leggere, dalla Roseland diretta dal corregionale Ortuso, a un’altra guidata dal sassofonista Felice Barboni, di stanza nientemeno che a St. Moritz. In una successiva esperienza milanese con l’Orchestra Ambassador, ebbe modo di stringere amicizia col trombonista americano Ben Pickering, futuro collaboratore di Tommy Dorsey. Tuttavia fu il ritorno nella Capitale a metterlo in luce, poiché come ricorda lo stesso Mazzoletti, Morea era tra i pochi musicisti italiani dell’epoca a saper improvvisare con disinvoltura sulle armonie dei brani. Ulteriori testimonianze indicano Morea come uno dei musicisti più stimati nell’entourage romano, oltre che probabilmente come primo solista italiano di sax baritono. Tuttavia, grazie a una scrittura ricevuta dall’orchestra di Ugo Canavesi, nel 1936 lo ritroviamo in Svizzera, dove accadde qualcosa di realmente straordinario, perché Morea ebbe l’occasione di suonare con il leggendario «padre» di tutti i sassofonisti tenori, l’afroamericano Coleman Hawkins che, dopo essersi fatto conoscere nell’orchestra di Fletcher Henderson, dal 1934 al 1939 aveva scelto di trasferirsi nel Vecchio Continente. Una circostanza talmente eclatante da spingere Morea addirittura a rifiutare un posto fisso come sassofonista dell’Orchestra dell’Eiar di Torino, che nasceva in quegli stessi giorni. In Svizzera le opportunità di lavoro non mancavano e, per assurdo, lo stesso accadeva anche in Germania dove, malgrado il jazz fosse considerato «musica degenerata», la censura era meno pesante che sotto il fascismo. Tuttavia, dopo un breve soggiorno in Germania, nel ‘41 Morea fu costretto a far ritorno in Italia a causa di problemi di salute. A Roma, avrebbe continuato a suonare la musica che amava fino alla Liberazione, ma non gli sarebbe rimasto più il tempo, a guerra finita, di vedere che il jazz scandiva la colonna sonora della ricostruzione. Dopo una crisi cardiaca nell’autunno del 1946, Morea morì ai primi di gennaio del ‘47 prim’ancora di compiere cinquant’anni. Sfortunatamente, la sua maestria solistica non si è potuta giovare di registrazioni discografiche in grado di poterla adeguatamente trasmettere ai posteri.

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